venerdì 30 settembre 2016

Emma e le Parole Guardate.


A gennaio del 2016 ho partecipato all'iniziativa Parole Guardate, organizzata presso il comune in cui vivo, che prevedeva oltre ad un corso di teatro anche un percorso di scrittura creativa. Il corso si snodava attraverso lezioni teoriche e pratiche e l'elaborazione di un breve racconto basato sui personaggi che popolano i romanzi di Maurizio De Giovanni, famoso autore noir. A giugno si è svolta la manifestazione conclusiva con letture pubbliche dei racconti scritti da chi come me ha partecipato all'iniziativa e l'occasione di conoscere De Giovanni, intervenuto ad una delle due serate in programma. Inutile dire che tutti noi abbiamo cercato di carpire qualche segreto dalla sua esperienza di scrittore.
La mia scelta è caduta su La condanna del sangue: La primavera del Commissario Ricciardi, dal quale ho poi estrapolato il personaggio di Emma Serra di Arpaja. I romanzi di De Giovanni sono sempre ambientati nella sua Napoli; in quella odierna il filone de I Bastardi di Pizzofalcone e nel passato la saga che vede come protagonista il Commissario Ricciardi.
Emma, donna fragile e indecisa, vittima di se stessa e della passività nei confronti della propria esistenza. L'ho scelta perché mi ha colpita la sua storia e il suo non-luogo all'interno della narrazione. "Hai scelto un personaggio non facile", ha commentato De Giovanni, e se lo dice lui che le ha dato vita!
Ma bando alle ciance, ecco il breve racconto intitolato semplicemente Emma:

"Nessuno al quartiere Santa Lucia avrebbe più sentito parlare di Emma De Luca.
Avrebbero semplicemente detto che era sparita, scappata lasciando nel disonore una
famiglia che contava su quell’unica figlia come sola possibilità di redenzione attraverso un
matrimonio ben orchestrato. Un’unione che avrebbe riportato il nome dei De Luca
nell’olimpo della società napoletana. Perché era così che funzionava agli alti livelli e così
doveva essere anche per lei. Era questione di pochi mesi ormai e sarebbe diventata la
signora Serra Di Arpaja: sposata con Ruggiero, un uomo molto più grande di lei, uno
scapolo aristocratico, illustre giurista e professore universitario. Lo aveva incontrato per la
prima volta sei mesi prima, quando le era stato presentato come suo futuro marito. Suo
padre si era limitato a introdurla con un “Lei è Emma”, posandole una mano sui lombi e
sospingendola in avanti, come se stesse mettendo in mostra un oggetto in vendita di
fronte ad un cliente interessato. Ruggiero le aveva riservato uno sguardo appiccicoso e
indiscreto, con quegli occhi sovrastati da sopracciglia troppo folte. Le aveva sorriso
mostrando i denti ingialliti dal fumo, in un ghigno che le aveva fatto gelare il sangue.
Emma intravide un futuro dal quale desiderava solo fuggire. Come poteva sprecare i suoi
giorni con quell’uomo?
No! Aveva deciso che, per la prima volta nella sua vita, avrebbe fatto di testa propria; se
ne sarebbe andata, per opporsi a quell’obbligo, per riscattarsi da un destino che una
donna come lei aveva segnato sin dalla nascita. Normalmente l’inquietudine di Emma
restava circoscritta all’interno della propria mente, contratta come dentro una piccola
scatola sigillata, nascosta alla vista dei più. Solo chi aveva la premura di guardare bene in
fondo a quegli occhi, oltre il trucco e le apparenze, notava il velo di tristezza e frustrazione
che accompagnava la ragazza.
Una settimana prima, all’uscita del Teatro San Carlo, le era cresciuta dentro una
incontenibile voglia di rivelare alla sua migliore amica, Marisa Cacciottoli Di Roccamonfina,
quali fossero i suoi piani. Ma Ciro, che da lontano la stava controllando seguendone i
movimenti con attenzione, fissò il proprio sguardo nel suo, scuotendo la testa in maniera
impercettibile. Intimandole un “Non dire niente!”
La valigia era sotto il letto. Poche cose, le aveva detto Ciro, il resto se lo sarebbero
procurato una volta arrivati a destinazione.
Aveva salutato sua madre come ogni sera prima di ritirarsi nella propria stanza, ma
anziché infilarsi tra le raffinate lenzuola di seta, aveva atteso che il silenzio calasse sul
palazzo ed era uscita nell’oscurità lasciando che l’aria umida di quella notte priva di luna le
carezzasse il viso, insinuandosi fin sotto i vestiti e provocandole piccoli brividi di freddo,
oppure solo di paura. Aveva permesso alle ombre della notte di inghiottirla, raggiungendo
a passi svelti la viuzza dove trovò Ciro ad attenderla. Si abbracciarono e lui l’aiutò a issarsi
sulla bicicletta.
«Pronta?»
Emma annuì. Ciro iniziò a pedalare mentre lei stringeva forte al petto la piccola valigia.
La città giaceva svestita della sua vivacità, lungo la via nessun testimone o occhio curioso
a seguire i loro movimenti. Raggiunsero vicolo Storto e svoltarono a destra, fondendosi
con le ombre.
Arrivarono al quartiere di Fuorigrotta, dove un amico di Ciro li stava aspettando con un
piccolo furgone Fiat sul quale caricarono la bicicletta e i loro miseri bagagli. Raggiunta la
stazione ferroviaria di Caserta si affidarono al primo treno del mattino diretto a Roma. Ciro
diceva di avere delle conoscenze che gli avrebbero procurato una casa e un lavoro per
mantenersi.
Nel lento procedere del convoglio Emma sedeva pensierosa sullo scomodo sedile di
legno della terza classe. Era questo che l’aspettava? D’ora in poi si sarebbe mescolata
alla plebaglia? Uomini coperti di stracci che prendevano il treno per andare in città a
vendere la loro unica gallina o le rape cresciute nel loro orto. Misere esistenze, inutili ai
suoi occhi. E che lavoro avrebbe trovato Ciro? E lei? Non aveva mai lavorato; nonostante i
recenti debiti contratti dal padre per mantenere alte dignità e apparenze agli occhi della
società, la loro vita era trascorsa serena, attraversando persino la grande guerra senza
aver risentito della successiva crisi.
«A che pensi Emma?» Ciro la strappò a quell’intreccio di pensieri e domande prive di
risposta.
«Cosa faremo? Io non ho mai lavorato...»
Ciro le si fece vicino abbracciandola, posandole una mano sulla testa e carezzandole i
lunghi capelli neri. «Non devi preoccuparti Emma mia, a te d’ora in poi ci pensa Ciro.» La
attirò a sé facendole posare la testa sul petto. «Staremo benone, vedrai.»
Ma quelle rassicurazioni non bastarono a placare l’ansia che, ogni chilometro in
direzione della loro meta, montava prepotente nel petto di Emma.
La situazione alla quale andarono incontro si rivelò meno confortevole di come Ciro,
forse per ingenuità o forse per astuzia, aveva prospettato ad Emma. Largo Dino Frisullo, la
via del Mattatoio nel rione Testaccio, non era esattamente la centralissima via Condotti
che la ragazza si era aspettata. «È una sistemazione provvisoria», non faceva che ripetere
Ciro, «appena mi pagano ci sistemiamo in centro e ti faccio vivere da signora. “La signora
Emma Esposito”, ti piace il tuo nuovo nome?»
Il lavoro di muratore di Ciro non portava i soldi promessi e la topaia in fondo alla via
nella quale si erano rifugiati, era diventata la loro casa. Due mesi e ancora le ripeteva le
stesse parole. «Ci sistemiamo in centro, vedrai. Ho un amico che dice ci aiuta. Ti sposerò
entro quest’anno e mi farai tanti bambini. Devono avere i tuoi occhi e il tuo sorriso.»
Ma il sorriso di Emma aveva smesso di illuminarle il volto. Abbandonata a se stessa in
quei giorni sempre uguali, fatti di lunghe ore trascorse a piangere o a contare il poco
denaro nascosto sotto il materasso, vedeva i ricordi della sua vita a Napoli perdersi in
lontananza. Si ritrovava a sussurrare preghiere tra le navate della chiesa di Santa Maria
Liberatrice o a vagare senza meta, tra i sentieri del cimitero degli artisti e dei poeti,
cercando invano di decifrare le iscrizioni sulle lapidi.
Ciro tornava sempre più spesso coi vestiti inzuppati di risse e alcool, gridava rabbioso e
allungava le mani su di lei. «E trovati un lavoro, pensi che ti manterrò per sempre? Credevi
di venire a fare la bella vita eh?!» Il vino lo trasformava in un’altra persona: era
incontrollabile, violento e spaventoso. Mutava poi, per tornare il Ciro affettuoso e
premuroso, quando l’ebbrezza si dissolveva e le ombre della notte lasciavano il passo al
sorgere di un nuovo giorno.
«Mi hai fatto delle promesse, avevi detto che ti saresti preso cura di me, che avremmo
trovato una casa e un lavoro dignitoso. Avevi promesso...» gli gridò addosso una mattina,
scoppiando in singhiozzi incontrollabili che la facevano sussultare in preda ad un tremore
convulso. «Non ne posso più di questa vita grama. Dove mi hai trascinata? Chi sei che
torni ogni sera ubriaco e preferisci fare a botte invece della mia compagnia?»
Quello sfogo improvviso sorprese Ciro. Vedeva Emma triste e chiusa in se stessa, ma
pensava fosse solo nostalgia di casa, della madre o delle uscite settimanali con l’amica
Marisa.
«Non fare così...» le si avvicinò posandole una mano sulla guancia nel tentativo di darle
conforto. Ma lei si scostò bruscamente lasciandolo con la mano a mezz’aria.
«Cosa credi? Che io sia felice di sgobbare ogni giorno sotto il sole ad ammucchiare
mattoni, a tirar su case eleganti e poi tornare in questo schifo? Credi che sia felice? Eh?
Guarda che lo faccio per noi, per il nostro futuro, per i bambini che faremo insieme. Perché
io voglio tanti bambini da te Emma, questo lo sai, vero? E ti sposerò e vivremo in una bella
casa, in centro...»
Emma smise di ascoltare, si voltò e pianse. Cosa le restava ora? Promesse e povertà.
Umiliazione e solitudine.
Appena Ciro fu uscito quella mattina, Emma De Luca prese il borsellino da sotto il
materasso e con i pochi soldi che conteneva si diresse a passo svelto verso la stazione
Ostiense. Sapeva a cosa stava correndo incontro: ci sarebbero state le braccia avvolgenti
di sua madre che l’avrebbe accolta con gioia e sollievo; uno schiaffo da suo padre perché,
anche se sotto sotto aveva un cuore, il suo ruolo di genitore gli imponeva di essere severo
e non fargliela passare liscia; e poi quell’uomo che non avrebbe mai amato e un
matrimonio “di comodo” che avrebbe aggiustato le sorti della famiglia. Una prigione dorata
forse, ma pur sempre la cosa più simile ad una casa che poteva permettersi. Una casa
dove le lenzuola erano di seta."

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