Cosa può scaturire dall'osservazione di un quadro?
Osservando Donna che fa il bagno di Edgar Degas, possono nascere molte domande sulla donna rappresentata: chi sia, se sia sposata o meno, cosa faccia nella vita, se stia sorridendo godendosi il piacere di un bagno caldo o al contrario stia annegando i dispiaceri nell'acqua di quella vasca.
A me ha ispirato questo breve racconto.
So che sei lì. Sento il tuo sguardo posarsi sulle
mie spalle nude. Sento i tuoi pensieri accompagnare ogni mio gesto. So che mi
sei accanto. “Mai più di due metri lontano da te” usavi dire. E so che è così.
Osservo queste pareti, dove il silenzio sembra aver
inghiottito ogni palpito di vita, dove il gracchiare dei corvi e il canto delle
allodole non può penetrare, dove il solo suono che scioglie i miei pensieri è
il mio stesso respiro che si mescola al vapore del bagno. La carta da parati,
quella che avevi scelto “perché il verde dà gioia e pace allo sguardo che vi si
posa”, se ne sta lì a ricordarmi i tuoi occhi.
Un’onda silenziosa di immagini si infrange contro
le mie palpebre chiuse, e si scioglie nelle lacrime che usando il mento come trampolino,
si tuffano nell’acqua della tinozza. Siamo noi. Ridiamo. Piangiamo. Tu mi
sorreggi. Io ti abbraccio. Tu coccoli i miei sogni e io ti metto dei fiori tra
i capelli. E poi c’è lui, e il buio ti inghiotte.
Non provo rancore per il tuo abbandono, non potrei
mai, ti amo e così sarà per sempre. So che in realtà la tua partenza è solo
fisica; so che mi accompagnerai fino a che abiterò questo corpo e camminerò in
questa vita. Ma la mancanza della tua voce mi distrugge, darei qualsiasi cosa
per sentire il mio nome pronunciato da quella musica che si sprigionava come
luce dal tuo corpo. E quella luce si è spenta.
L’incertezza di ciò che verrà, il silenzio e la
paura mi mangiano da dentro. Non posso evitarmi di risentire mille e mille
altre volte ancora le parole dure di Gérard, gli sputi di odio nei nostri
confronti, la gelosia malata, la meschinità delle sue azioni. L’arroganza e la
possessività, quell’orgoglio ereditario che hanno guidato la sua mano pesante
su di te. E il mio sentirmi inerme e inutile, incapace di alzare un pugno sino
al suo viso, strappargli quella barba aristocratica e difendere te, noi, il
nostro amore. Questo amore soffocato e silenzioso, invisibile allo sguardo
austero del mondo, impossibile talvolta, inammissibile e sbagliato ai loro
occhi, contro natura. Il nostro attaccamento, la nostra amicizia, quell’affetto
che ci ha guidate l’una verso l’altra sin dall’infanzia, quello che ci ha unite
in un sentimento che, sono certa, supererà le barriere del tempo e dello
spazio.
Qualcosa oltre il vetro della finestra attira la
mia attenzione; lascio cadere la spugna nell’acqua. Un passero becchetta dei
semi sul davanzale. Sorrido perché so che quei semi li hai lasciati tu per
qualche creatura che d’inverno non trova cibo. Quanto era grande il tuo cuore.
Un essere speciale come te non può vivere a lungo su questa terra, ha piani più
importanti da portare a termine, progetti che qui, nella semplicità dei gesti
umani risultano non contemplabili. Sei diventata un angelo forse. O forse lo
sei sempre stata.
Emetto un grido e stringo ancora più forte a me il
lembo del telo di lino.
«Come hai fatto a entrare?» ansimo.
«Tu. Donna immonda» sussurra con voce baritonale.
Mi volto e lui è a pochi metri da me: il dito
indice puntato contro il mio naso, la schiuma ai lati dalla bocca socchiusa.
Stringe nell’altra mano il cappello, stropicciandone la tesa.
«Chi ti ha dato il permesso di entrare in casa mia?»
«L’hai uccisa tu. Tu l’hai spinta a buttarsi dalla
scogliera.»
Lo guardo incapace di ribattere. Come si permette?
Io l’amavo, il mio era amore vero, il mio cuore era tutto, irrimediabilmente
suo. Cosa ne può sapere Gérard di quello che c’era tra noi?
«Cosa le hai fatto? Cosa facevate quando veniva
qui?» avanza minaccioso un passo alla volta. «Mi disgusti, tu e tutte quelle
come te. Abominio, ecco cosa siete.» Zampilli di saliva piovono come
proiettili.
Il cuore inizia a galoppare, lo sentono le mie
orecchie, lo sente anche lui. Mi legge in faccia la paura, m’inchioda alle assi
del pavimento con occhi iniettati di sangue.
Un respiro e lui mi è addosso. Mi afferra per il
collo, la mano dalle dita grassocce lo avvolge senza alcuna fatica, e inizia a
stringere, un dito dopo l’altro. L’altra mano resta aggrappata al cappello come
fosse uno scettro dal quale non vuole separarsi. Mi divincolo, affamata d’aria,
con le unghie infilate nella pelle delle sue guance, cerco i suoi occhi. Devo
respirare, devo levarmelo di dosso. Devo chiamare aiuto.
Dalla sua gola si sprigiona una risata che sembra
provenire dalle cavità più profonde degli inferi. Inizia a farneticare, a
inveire contro di me, contro di lei. Io non riesco a respirare, inizio a non
capire ciò che dice. Improvvisamente sembra che la luce del tramonto abbia
avvolto la stanza.
Fluttuo in una nebbia rosa. Sono avvolta da una
leggerezza nuova, non avverto il peso del mio corpo, non avverto il peso della
vita. Oh mia adorata, potrò finalmente rincontrarti, ora che non faccio più
parte degli abitanti della terra? Sento di sorridere, una serenità ultraterrena
mi culla.
I violini del paradiso, non li sento. Perché non li
sento?
Un suono lontano si palesa ai miei sensi, sembra un
singhiozzo sommesso. Cerco di vedere oltre la nebbia che mi circonda ma non
riesco a mettere a fuoco alcunché. Poi sento freddo, un freddo glaciale. E
tutto prende forma. I miei arti, le mie mani, il mio intero corpo immerso in un
liquido gelato. Scopro di poter aprire gli occhi e lo sgomento nel constatare
di essere ancora viva, è più grande della sorpresa di trovarmi nuda nella
tinozza e di vedere che Gérard è ancora nella mia stanza. Sta seduto nella
poltrona di vimini di fronte alla finestra, ha la testa tra le mani e
singhiozza da chissà quanto tempo. Il tramonto si sta affacciando oltre il
giardino e le prime ombre si insinuano dietro ai mobili.
Resto immobile, la gola mi duole e fatico a
respirare, ma ho il timore che se mi muovessi per uscire dall’acqua lui si
volterebbe e sarebbe ben presto su di me. Ha tentato di uccidermi, così come ha
fatto con lei, se non sei come dice lui non devi essere null’altro.
Il buio sta per avvolgere la stanza quando si alza,
sposta con uno strattone la poltroncina e esce senza curarsi di me. Crede che
sia morta, forse. Mi rallegro al suono del portone chiudersi ed esco dall’acqua
per correre all’armadio e vestirmi. Chiudo con il catenaccio e accendo il fuoco
nel camino. So che dormire sarà impossibile stanotte. Domani all’alba andrò dal
dottor Mirabelle: i lividi che ho su collo, spalle e natiche mi fanno temere
cose che non voglio nemmeno immaginare. Mi aggrappo alla speranza che forse,
quando gli sembrava che avessi smesso di respirare, mi abbia gettata dentro la
tinozza e lì, mi sono procurata i lividi.
Oh mio dolce, piccolo tesoro, vorrei tanto
addormentarmi stretta a te, cullata dalla musica della tua voce e non
svegliarmi mai più, non qui, in questa casa, in questa vita, dove lui può
tornare a prendermi e uccidermi di nuovo.
“Mai più di due
metri lontano da te” sembra sussurrare il vento.Tutti i diritti riservati. Vietata la copia anche parziale.