Racconto scritto in occasione del workshop con lo scrittore Luca Ricci, svoltosi a Livorno lo scorso giugno, nell'ambito del percorso che sto seguendo con la Scuola Carver. Eche doveva essere presente nel racconto: il mare.
Stava seduta su un muretto a picco sulla
scogliera, con i piedi abbandonati nel vuoto che terminava una decina di metri
più in basso tra ciottoli e massi spumosi di schiuma bianca. La voce
dell’oceano riempiva stradine e vicoli e il vento accarezzava di salsedine
il viso di Soraya.
Le onde si infrangevano vivaci sugli
scogli del piccolo promontorio che ospitava la cittadella fortificata
dell’Oudaya. Turisti e perditempo si avvicendavano sulla terrazza panoramica
tra fotografie e pose da Instagram, indici tesi verso l’orizzonte, libri della
Lonely Planet aperti e grandi sorrisi entusiasti. L’unico loro problema era
scegliere quale sfondo fosse il migliore: oceano e tramonto o braccio di mare
che manteneva divisa la città di Salé dalla medina di Rabat?
Yasmin era seduta a terra, con le spalle
appoggiate al muretto, le ginocchia al petto e le dita che correvano veloci sul
cellulare.
«Le ragazze ci aspettano. Andiamo?»
Soraya non le diede ascolto continuando a
restare immersa o forse rapita dalla musicalità delle onde. Alcuni pescatori
stavano facendo ritorno al porto di Salé, le loro piccole barche erano seguite
da stormi di gabbiani.
Yasmin raccolse qualche ciottolo tirandolo
a pochi metri da dov’era appollaiata. Un gruppetto di turisti tedeschi le passò
accanto lanciando sguardi accigliati e borbottando cose a lei incomprensibili.
Soraya chiuse gli occhi: il mare le stava
parlando, con sussurri e lamenti, di arrivi e partenze, abbandoni e avventure,
orizzonti lontani e vivaci chiacchiericci in porti che da qualche parte oltre
la linea che divideva aria e acqua erano in attesa di un mercantile, un
peschereccio, una nave da crociera. Era lì, oltre lo spazio che riempiva la
distanza fisica con quei luoghi, seduta al tavolino di un bar qualsiasi di New
York o magari New Orleans, sorseggiava qualcosa dal sapore forte e tra le mani
aveva la propria vita. La libertà, la stava chiamando nascosta
tra le grida del mare, la sensazione di poter respirare un’aria diversa era un
invito ad alzarsi e fuggire. Lontano.
Yasmin le diede un colpetto sulla schiena costringendola
a riaprire gli occhi e tornare all’Oudaya.
«Allora? Mi rispondi?»
«Cosa?»
«Ti va di andare alla spiaggia?
Mina e gli altri sono già lì. Mi ha mandato mille messaggi. Che le dico?»
«Mm…»
«Si va?»
«Sì, andiamo.»
Saltò giù dal muretto e respirando a fondo
un’altra boccata d’aria umida, si voltò verso l’amica. Uscirono dalla kasbah e,
mentre il tramonto lanciava lame rossastre su mura senza tempo, raggiunsero la
fermata dell’autobus.
Il cielo più a nord spingeva verso di loro
nuvole nere, il vento si stava facendo più insistente e le raffiche si
divertivano a spettinare i cedri lungo la strada che costeggiava l’oceano.
Plage des Contrebandiers era punteggiata
dai piccoli capannelli tipici del sabato pomeriggio, c’erano musica, sigarette,
tamburi e la birra nascosta nelle bottigliette verdi della Pommes.
Mina e gli altri sedevano accanto a una
delle baracche che vendevano bibite e gelati. La musica del lettore mp3 di
Nasser animava l’atmosfera con il solito hip pop algerino che a Soraya faceva
venire la nausea.
«Oh, ma dove vi siete perse?» chiese Mina.
La sua espressione infastidita non durò a lungo mutandosi presto in un sorriso
luminoso.
Yasmin e Soraya si unirono agli amici
sulla sabbia fresca. L’argomento in discussione era incentrato su cosa fare il
giorno dopo quando, una volta espletati gli obblighi di partecipazione alla pasqua
islamica, alla quale nessuno poteva sottrarsi, sarebbero potuti uscire per
ritrovarsi come sempre ai piedi della scalinata che conduceva alla cittadella.
Le ragazze si lamentarono di non potersi
considerare libere prima di una certa ora, visto che il loro aiuto era
richiesto in cucina e madri e zie si aspettavano collaborazione e rispetto dei
ruoli. Nasser e Jalal risero sguaiatamente a una battuta che tennero per sé,
facendo indispettire le ragazze; privi da obblighi culinari, avrebbero goduto
di maggior tempo libero e si diedero appuntamento per il giorno seguente
dicendo alle amiche che le avrebbero aspettate al
solito posto.
Soraya si alzò di scatto incamminandosi
verso la battigia. Le piaceva osservare quel tratto di mare, acque che
centinaia di anni prima erano state solcate da vascelli e navi dei temuti
corsari di Salé. Le sembrava di vederli mentre si avvicinavano alla città per
svuotare le stive dal carico umano collezionato lungo le coste europee; inglesi
e francesi, biondi e diafani, destinati ai mercati di schiavi e comprati da
facoltosi mercanti per finire a lavorare in campi riarsi e morire di fame. A
chi andava bene poteva ritrovarsi alla corte del sultano: eunuchi e concubine,
ma cibo e protezione nei lussuosi palazzi del regno non mutavano la loro condizione
di schiavi.
E cos’altro era lei stessa, se non una vittima,
schiava di un sistema sociale fatto di credenze e imposizioni vecchie di
millenni? Nonostante nell’ultimo secolo le cose fossero andate migliorando,
Soraya si sentiva comunque prigioniera di una cultura in cui il divario tra
uomini e donne era ancora forte e la libertà cui agognava era un miraggio
lontano.
Si liberò delle scarpe da ginnastica e
s’immerse nell’acqua gelida fino alle caviglie.
Yasmin le arrivò alle spalle.
«Cos’hai? Hai litigato ancora con tuo
padre?»
Soraya guardò l’amica: gli occhi le
sorridevano e la preoccupazione che vi leggeva la fecero sciogliere. Aprì la
bocca pronta a parlare di ciò che la rattristava, ma un secondo prima si voltò
verso il mare. «Chissà dove sta andando quella nave» disse.
Yasmin inarcò un sopracciglio e le si fece
vicina indecisa se commentare quell’affermazione inutile o lasciare che il
vento se la portasse via.
«È tutto il giorno che sei strana» le
prese una mano, «mi vuoi dire cosa c’è?»
Soraya lasciò che le lacrime tracimassero,
quelle gocce da troppo trattenute assaporarono la libertà bagnandole il petto.
Si voltò a guardare la ragazza che le stava accanto, l’amica con cui non aveva
segreti, quella che la conosceva meglio di chiunque, quella che amava come
nessun altro.
«Vorrei solo salire su una nave e andarmene
da qui, vorrei che venissi con me e che potessimo stare insieme senza doverci
nascondere, vorrei poter gridare a tutti quanto ti amo e sentirmi libera di
camminare per strada stringendoti la mano. E vorrei vivere da qualche parte là,
oltre l’oceano, avere un lavoro e un appartamento tutto nostro e non aver paura
dei giudizi della gente.» I singhiozzi la fecero sussultare.
Yasmin le prese la mano conducendola
qualche passo indietro, sulla sabbia asciutta, con delicatezza la fece sedere e
mettendosi accanto l’abbracciò senza parlare.
Dietro di loro qualcuno fischiò. Nasser sghignazzò
dando il gomito a Jalal. «Te l’ho detto, quelle due hanno una tresca.»
«Se lo sapesse Youssef rinchiuderebbe
Soraya in casa per tutta la vita.» Aspirò una boccata di fumo.
«Sì e ucciderebbe Yasmin» disse l’altro.
«Ma che ne sapete voi? Smettetela di
prenderle in giro» disse Mina infastidita. «Magari Soraya ha litigato di nuovo
con i suoi e Yasmin la sta consolando.»
«Già» disse Nasser facendo l’occhiolino
all’amico che diede qualche colpetto al tamburo intonando un canto tipico delle
feste di matrimonio.
Qualche ora dopo, nascosta sotto la
pesante coperta di lana, Soraya prese appunti mentalmente. Sei mesi e sarebbe
diventata maggiorenne, avrebbe potuto richiedere il passaporto senza che i
genitori venissero coinvolti, avrebbe cercato un lavoro con la scusa di mettere
da parte dei soldi per acquistare un motorino o magari una piccola auto che le
sarebbe servita per andare all’università. A quel punto lei e Yasmin avrebbero
organizzato il loro viaggio di sola andata per una destinazione ancora da
definire.
Yasmin era due anni più grande di lei, la
sua era una famiglia benestante e il padre, dirigente in uno dei maggiori
ospedali di Rabat, non faceva troppe domande quando gli chiedeva dei soldi.
Metterne da parte un po’ non sarebbe stato difficile.
Prese il cellulare da sotto il cuscino,
Google illuminò la piccola caverna sotto la coperta. New York: il biglietto
aereo era troppo costoso e poi nessuna delle due parlava un inglese fluente.
Parigi: la vita costava troppo, scartata. La Spagna era una meta vicina, il
costo della vita non troppo elevato e il cibo ottimo. Avrebbero trovato un
lavoro come cameriere e un piccolo appartamento, magari a Barcellona, multietnica
e vibrante. Si ricordò che un cugino di Yasmin viveva a nord della città,
avrebbero potuto chiedergli aiuto per trovare una sistemazione, almeno per i
primi tempi. Ce la potevano fare, la libertà avrebbe richiesto un tributo,
abbandoni privi di saluti e dolorosi adii, ma sapeva che ne sarebbe valsa la
pena.
Inviò un messaggio a Yasmin: “Domani ti
devo raccontare una cosa. Ti piacerà.” Sapeva che avrebbe capito, che secondo
il loro linguaggio ciò significava che aveva appena preso una importante
decisione e che questa riguardava entrambe.
C’era chi nasceva con le ali e chi doveva
sudare per ottenerle, in entrambi i casi era solo una questione di tempo perché
imparassero ad usarle per conquistare la libertà dell’aria, solcare oceani perfino,
e vivere.
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