lunedì 18 dicembre 2017

De Sprofundis, storie di vergogna, imbarazzo e figuracce.



    E' con grande piacere che annuncio l'uscita del libro De Sprofundis, Storie di vergogna, imbarazzo e figuracce, una raccolta di racconti scritti dagli allievi dei corsi Scuola Carver di fine anno scolastico 2016/17 edito dalla casa editrice Valigie rosse. E quest'anno ci sono anch'io tra gli ottanta partecipanti: il mio racconto si intitola Etichette.

   Ma cosa sono le etichette di cui parlo? Sono quelle che la società ci appiccica addosso e nelle quali spesso ci si sente inadeguati e in qualche misura costretti. La necessità di dare definizioni, di etichettare ogni cosa, comportamento, scelta, tendenza di noi esseri umani.
    Un individuo prima di essere riconosciuto come tale viene incasellato dentro scatole di varie misure, chiuse una dentro l'altra tipo matrioska,  a volte talmente strette che la difficoltà nei movimenti diventa un male esistenziale. Ti viene chiesto chi sei e la risposta è sempre un'etichetta. Sei una madre, una moglie, una casalinga o un'operaia, una single, una sorella, una compagna, una direttrice, una vegetariana, una di destra o di sinistra, una rivoluzionaria, una di colore, e via dicendo.

   Nel mio raccontare ho preso spunto da esperienze vissute in prima persona, romanzando il mio percorso esistenziale, i timori e le debolezze che avvertivo come montagne invalicabili, poi la solitudine e l'inadeguatezza che come naturali conseguenze ho visto materializzarsi lungo la strada. E non è un'esistenza semplice quella che si intravede in queste righe, certo è che grazie alle sfide impostemi dalla vita sono riuscita a uscire dall'etichettatrice sociale per capire chi ero e cosa volevo, per essere me stessa in primis, e poi, a cascata, tutto il resto, sempre senza dare troppa importanza al giudizio altrui. Ma questa è un'altra storia...







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mercoledì 6 dicembre 2017

Le chiavi col cammello

Frugare nella borsa di noi donne spesso equivale a mettere una mano in un buco nero privo di fondo nel quale ritrovare gli oggetti diventa una missione impossibile. C'è sempre troppa roba, sempre troppi scomparti e tasche di varie misure. E come ben sa chi mi conosce, la borsa di Mary Poppins mi fa un baffo! Per questo motivo succede che...

"Tra i numerosi e spesso inutili oggetti che compongono il ripieno della mia borsa, il burrocacao è sempre quello più difficile da individuare. Sarà per la sua forma cilindrica o perché è fatto di burro e per sua natura ha la tendenza a scivolare, ma infilando la mano nel tentativo di trovarlo lui sembra scansarsi appositamente e nascondersi in qualche piega del tessuto o dietro ad altre cose. Ieri è successo che svuotando la tasca principale della mia borsa in cerca del balsamo labbra, ne siano uscite le chiavi con il cammello. Erano finite sotto tutto il resto, abbandonate e dimenticate. Le ho prese tra le mani e subito grosse lacrime sono scappate, automatiche e impertinenti, atterrandomi poi sulle scarpe. Sono le chiavi della casa in cui ho abitato dai dieci ai diciannove anni, la casa in cui ho vissuto la mia adolescenza, le pareti che mi hanno sentita litigare con mio fratello, gridare frustrazione, discutere con mio padre, la stanza che mi ha vista piangere, ballare o registrare le canzoni dalla radio, scrivere lettere chilometriche all’amore di un’estate o alle pagine di un diario che non ho mai più riletto. La casa in cui ogni anno per Natale la nostra famiglia si è riunita e che quest’anno lo farà per l’ultima volta. Le mura che hanno racchiuso il significato di casa, di calore familiare, di amore e conforto.

Mi sono rigirata le chiavi tra le dita, ritrovandomi a pensare cosa ne farò dopo che quell’appartamento verrà svuotato la prossima primavera, quando usciremo chiudendoci la porta alle spalle per l’ultima volta. Saranno solo oggetti, inanimati e senza utilità, pezzi di metallo uniti da un anello e un piccolo pezzo di pelle tagliato a forma di cammello, eppure al loro interno racchiudono così tanto. Non credo che mi sarà possibile gettare nella raccolta differenziata le chiavi di quella che ho sempre chiamato “casa mia”. Forse continuerò a tenerle nella borsa, a far compagnia a quelle che, la prossima estate, apriranno la mia nuova casa."

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mercoledì 22 novembre 2017

Ali

Racconto scritto in occasione del workshop con lo scrittore Luca Ricci, svoltosi a Livorno lo scorso giugno, nell'ambito del percorso che sto seguendo con la Scuola Carver. Eche doveva essere presente nel racconto: il mare.


Stava seduta su un muretto a picco sulla scogliera, con i piedi abbandonati nel vuoto che terminava una decina di metri più in basso tra ciottoli e massi spumosi di schiuma bianca. La voce dell’oceano riempiva stradine e vicoli e il vento accarezzava di salsedine il viso di Soraya.
Le onde si infrangevano vivaci sugli scogli del piccolo promontorio che ospitava la cittadella fortificata dell’Oudaya. Turisti e perditempo si avvicendavano sulla terrazza panoramica tra fotografie e pose da Instagram, indici tesi verso l’orizzonte, libri della Lonely Planet aperti e grandi sorrisi entusiasti. L’unico loro problema era scegliere quale sfondo fosse il migliore: oceano e tramonto o braccio di mare che manteneva divisa la città di Salé dalla medina di Rabat?
Yasmin era seduta a terra, con le spalle appoggiate al muretto, le ginocchia al petto e le dita che correvano veloci sul cellulare.
«Le ragazze ci aspettano. Andiamo?»
Soraya non le diede ascolto continuando a restare immersa o forse rapita dalla musicalità delle onde. Alcuni pescatori stavano facendo ritorno al porto di Salé, le loro piccole barche erano seguite da stormi di gabbiani.
Yasmin raccolse qualche ciottolo tirandolo a pochi metri da dov’era appollaiata. Un gruppetto di turisti tedeschi le passò accanto lanciando sguardi accigliati e borbottando cose a lei incomprensibili.
Soraya chiuse gli occhi: il mare le stava parlando, con sussurri e lamenti, di arrivi e partenze, abbandoni e avventure, orizzonti lontani e vivaci chiacchiericci in porti che da qualche parte oltre la linea che divideva aria e acqua erano in attesa di un mercantile, un peschereccio, una nave da crociera. Era lì, oltre lo spazio che riempiva la distanza fisica con quei luoghi, seduta al tavolino di un bar qualsiasi di New York o magari New Orleans, sorseggiava qualcosa dal sapore forte e tra le mani aveva la propria vita. La libertà, la stava chiamando nascosta tra le grida del mare, la sensazione di poter respirare un’aria diversa era un invito ad alzarsi e fuggire. Lontano.
Yasmin le diede un colpetto sulla schiena costringendola a riaprire gli occhi e tornare all’Oudaya.
«Allora? Mi rispondi?»
«Cosa?»
«Ti va di andare alla spiaggia? Mina e gli altri sono già lì. Mi ha mandato mille messaggi. Che le dico?»
«Mm…»
«Si va?»
«Sì, andiamo.»
Saltò giù dal muretto e respirando a fondo un’altra boccata d’aria umida, si voltò verso l’amica. Uscirono dalla kasbah e, mentre il tramonto lanciava lame rossastre su mura senza tempo, raggiunsero la fermata dell’autobus.
Il cielo più a nord spingeva verso di loro nuvole nere, il vento si stava facendo più insistente e le raffiche si divertivano a spettinare i cedri lungo la strada che costeggiava l’oceano.

Plage des Contrebandiers era punteggiata dai piccoli capannelli tipici del sabato pomeriggio, c’erano musica, sigarette, tamburi e la birra nascosta nelle bottigliette verdi della Pommes.
Mina e gli altri sedevano accanto a una delle baracche che vendevano bibite e gelati. La musica del lettore mp3 di Nasser animava l’atmosfera con il solito hip pop algerino che a Soraya faceva venire la nausea.
«Oh, ma dove vi siete perse?» chiese Mina. La sua espressione infastidita non durò a lungo mutandosi presto in un sorriso luminoso.
Yasmin e Soraya si unirono agli amici sulla sabbia fresca. L’argomento in discussione era incentrato su cosa fare il giorno dopo quando, una volta espletati gli obblighi di partecipazione alla pasqua islamica, alla quale nessuno poteva sottrarsi, sarebbero potuti uscire per ritrovarsi come sempre ai piedi della scalinata che conduceva alla cittadella.
Le ragazze si lamentarono di non potersi considerare libere prima di una certa ora, visto che il loro aiuto era richiesto in cucina e madri e zie si aspettavano collaborazione e rispetto dei ruoli. Nasser e Jalal risero sguaiatamente a una battuta che tennero per sé, facendo indispettire le ragazze; privi da obblighi culinari, avrebbero goduto di maggior tempo libero e si diedero appuntamento per il giorno seguente dicendo alle amiche che le avrebbero aspettate al solito posto.
Soraya si alzò di scatto incamminandosi verso la battigia. Le piaceva osservare quel tratto di mare, acque che centinaia di anni prima erano state solcate da vascelli e navi dei temuti corsari di Salé. Le sembrava di vederli mentre si avvicinavano alla città per svuotare le stive dal carico umano collezionato lungo le coste europee; inglesi e francesi, biondi e diafani, destinati ai mercati di schiavi e comprati da facoltosi mercanti per finire a lavorare in campi riarsi e morire di fame. A chi andava bene poteva ritrovarsi alla corte del sultano: eunuchi e concubine, ma cibo e protezione nei lussuosi palazzi del regno non mutavano la loro condizione di schiavi.
E cos’altro era lei stessa, se non una vittima, schiava di un sistema sociale fatto di credenze e imposizioni vecchie di millenni? Nonostante nell’ultimo secolo le cose fossero andate migliorando, Soraya si sentiva comunque prigioniera di una cultura in cui il divario tra uomini e donne era ancora forte e la libertà cui agognava era un miraggio lontano.
Si liberò delle scarpe da ginnastica e s’immerse nell’acqua gelida fino alle caviglie.
Yasmin le arrivò alle spalle.
«Cos’hai? Hai litigato ancora con tuo padre?»
Soraya guardò l’amica: gli occhi le sorridevano e la preoccupazione che vi leggeva la fecero sciogliere. Aprì la bocca pronta a parlare di ciò che la rattristava, ma un secondo prima si voltò verso il mare. «Chissà dove sta andando quella nave» disse.
Yasmin inarcò un sopracciglio e le si fece vicina indecisa se commentare quell’affermazione inutile o lasciare che il vento se la portasse via.
«È tutto il giorno che sei strana» le prese una mano, «mi vuoi dire cosa c’è?»
Soraya lasciò che le lacrime tracimassero, quelle gocce da troppo trattenute assaporarono la libertà bagnandole il petto. Si voltò a guardare la ragazza che le stava accanto, l’amica con cui non aveva segreti, quella che la conosceva meglio di chiunque, quella che amava come nessun altro.
«Vorrei solo salire su una nave e andarmene da qui, vorrei che venissi con me e che potessimo stare insieme senza doverci nascondere, vorrei poter gridare a tutti quanto ti amo e sentirmi libera di camminare per strada stringendoti la mano. E vorrei vivere da qualche parte là, oltre l’oceano, avere un lavoro e un appartamento tutto nostro e non aver paura dei giudizi della gente.» I singhiozzi la fecero sussultare.
Yasmin le prese la mano conducendola qualche passo indietro, sulla sabbia asciutta, con delicatezza la fece sedere e mettendosi accanto l’abbracciò senza parlare.
Dietro di loro qualcuno fischiò. Nasser sghignazzò dando il gomito a Jalal. «Te l’ho detto, quelle due hanno una tresca.»
«Se lo sapesse Youssef rinchiuderebbe Soraya in casa per tutta la vita.» Aspirò una boccata di fumo.
«Sì e ucciderebbe Yasmin» disse l’altro.
«Ma che ne sapete voi? Smettetela di prenderle in giro» disse Mina infastidita. «Magari Soraya ha litigato di nuovo con i suoi e Yasmin la sta consolando.»
«Già» disse Nasser facendo l’occhiolino all’amico che diede qualche colpetto al tamburo intonando un canto tipico delle feste di matrimonio.

Qualche ora dopo, nascosta sotto la pesante coperta di lana, Soraya prese appunti mentalmente. Sei mesi e sarebbe diventata maggiorenne, avrebbe potuto richiedere il passaporto senza che i genitori venissero coinvolti, avrebbe cercato un lavoro con la scusa di mettere da parte dei soldi per acquistare un motorino o magari una piccola auto che le sarebbe servita per andare all’università. A quel punto lei e Yasmin avrebbero organizzato il loro viaggio di sola andata per una destinazione ancora da definire.
Yasmin era due anni più grande di lei, la sua era una famiglia benestante e il padre, dirigente in uno dei maggiori ospedali di Rabat, non faceva troppe domande quando gli chiedeva dei soldi. Metterne da parte un po’ non sarebbe stato difficile.
Prese il cellulare da sotto il cuscino, Google illuminò la piccola caverna sotto la coperta. New York: il biglietto aereo era troppo costoso e poi nessuna delle due parlava un inglese fluente. Parigi: la vita costava troppo, scartata. La Spagna era una meta vicina, il costo della vita non troppo elevato e il cibo ottimo. Avrebbero trovato un lavoro come cameriere e un piccolo appartamento, magari a Barcellona, multietnica e vibrante. Si ricordò che un cugino di Yasmin viveva a nord della città, avrebbero potuto chiedergli aiuto per trovare una sistemazione, almeno per i primi tempi. Ce la potevano fare, la libertà avrebbe richiesto un tributo, abbandoni privi di saluti e dolorosi adii, ma sapeva che ne sarebbe valsa la pena.
Inviò un messaggio a Yasmin: “Domani ti devo raccontare una cosa. Ti piacerà.” Sapeva che avrebbe capito, che secondo il loro linguaggio ciò significava che aveva appena preso una importante decisione e che questa riguardava entrambe.

C’era chi nasceva con le ali e chi doveva sudare per ottenerle, in entrambi i casi era solo una questione di tempo perché imparassero ad usarle per conquistare la libertà dell’aria, solcare oceani perfino, e vivere.


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domenica 28 maggio 2017

Racconto finale del laboratorio di scrittura creativa "Parole guardate" 2017

      Anche quest'anno il laboratorio di scrittura creativa e teatro "Parole guardate" svoltosi a Peccioli, è giunto a conclusione. Il tema di questo secondo laboratorio era il giallo. Abbiamo dapprima lavorato sul giallo classico, scoperto quali sono le regole che caratterizzano questo tipo di narrazione e imparato a elaborare una trama che ne tenesse conto. Successivamente abbiamo scritto dei racconti prendendo spunto dai libri dello scrittore Romano De Marco che ci ha accompagnato per tre incontri. Come l'anno scorso a fine laboratorio si è svolta una festa nel corso della quale c'è stata la lettura dei racconti prodotti dai partecipanti.
Di seguito il mio elaborato intitolato Alibi.
Buona lettura.

Erica si rigirava nella semioscurità. I polsi le dolevano, le caviglie chiuse in nodi stretti non le permettevano di alzarsi. Poteva solo rotolare.
Non conosceva la voce che la sera prima le aveva intimato di non gridare e di fare la brava: sembrava che l’uomo indossasse un bavaglio o avesse in bocca qualcosa per modificare l’intonazione. Non era in grado di capire quanti anni potesse avere o sapere se stesse parlando sul serio quando diceva che non le avrebbe torto un capello. Cosa stava aspettando e chi era il complice con cui parlava sottovoce al di là della porta?
Quando l’avevano colta di sorpresa, appena fuori dal parco che, per un breve tratto, costeggiava il percorso da casa all’ospedale, non aveva avuto il tempo di capire cosa stesse succedendo. Un sacchetto di tela le era sceso sul capo e una mano rapida aveva soffocato le sue grida. Poi era stato tutto uno sballottamento e una corsa concitata, condita con sussurri incomprensibili, terminata forse sul pianale di un furgone dove le erano stati legati mani e piedi e un bavaglio aveva preso il posto della mano sulla bocca. Il resto era un ricordo nebuloso, fatto di suoni confusi e freddo misto a paura.
  I rumori del traffico oltrepassavano la barriera dell’unica finestra, chiusa e coperta da una tenda scura e pesante, poteva trovarsi vicino ad una strada di grande comunicazione, magari in uno di quegli hotel appena fuori città che ospitavano uomini d’affari sempre in viaggio o incontri che duravano appena qualche ora.
Un bip anticipò l’apertura della porta. Il buio non venne rischiarato come lei si sarebbe aspettata e un’ombra si avvicinò silenziosa sulla moquette. Poi fu il nulla.


Maurizio sistemò il bavero della giacca e si passò la mano nervosa tra i capelli. Aprì la porta lasciando entrare la luce solare che lo colpì con prepotenza facendogli socchiudere gli occhi. Uscì unendosi al resto del mondo che si avviava ad iniziare un’altra giornata.
Fuori, nell’aria tiepida profumata di salsedine, si permise di respirare, consentendo al cuore di tornare ad un ritmo più normale. Sarebbe andato tutto bene.
La giornata lavorativa gli permise di distrarsi, cercò di limitare i propri pensieri all’azienda che aveva ereditato dal padre e dirigeva con successo. La Curti Design era una delle più famose e redditizie aziende di arredamento di lusso del paese. Ma la mente trovava appigli in ogni dove, piccoli particolari o gesti che lo riportavano alla notte trascorsa fuori, facendo riaffiorare un certo timore sotterraneo.
A fine pomeriggio, poco prima che la riunione fosse terminata, la segretaria gli passò una chiamata da parte di una collega di sua moglie.
«Dottor Curti?»
«Sì, con chi parlo?»
«Salve, sono Luisa, una collega di Erica. È da ieri sera che cerchiamo di metterci in contatto con sua moglie ma non risponde né al cellulare né a casa. Volevo assicurarmi che stesse bene.»
«Ma… lei era di turno stanotte. Dovrebbe essere rientrata a casa stamattina alle nove…»
«In ospedale non si è fatta vedere. Avevamo il turno insieme. È strano perché di solito quando non viene al lavoro sono la prima a saperlo.»
Maurizio avvertì un velo di sudore coprirgli la fronte e un leggero tremore impossessarsi della sua voce.
«Io non la sento da ieri pomeriggio» Allentò in nodo della cravatta. «Sono stato molto impegnato.» Non poteva confessare di aver trascorso la notte fuori.
«Potrebbe accertarsi che non si sia sentita male e poi richiamare a questo numero? Grazie. Parlerò io al primario.»
«Certo.» Maurizio non attese che la donna lo salutasse e sospese la chiamata.
Il panico lo avvolse come le spire di un essere strisciante: gli era quasi impossibile respirare. Chiuse le ultime pratiche e spense il computer. Rivolse un frettoloso saluto alla segretaria la quale gli ricordò che l’appuntamento delle otto e trenta del giorno successivo era stato anticipato e che l’autista sarebbe passato mezz’ora prima rispetto ai programmi.
Una volta seduto sui sedili in pelle della sua auto chiamò un numero che non aveva intenzione di registrare nella rubrica, lo stesso del quale cancellava le tracce dopo ogni chiamata o messaggio. L’altra persona rispose dopo pochi squilli.
«Ciao! Non siamo rimasti d’accordo di vederci domani sera?»
«Sì, be’… Meglio se non ci vediamo per un po’,» disse a bassa voce. Non era sicuro di poter fare affidamento sulla discrezione del nuovo autista, «poi ti spiego. Mi faccio sentire io.»
L’inquietudine ormai gli scorreva al posto del sangue, riusciva solo a pensare a titoli di giornale che denunciavano uno scandalo ai suoi danni e a come questo avrebbe compromesso la campagna elettorale. La vergogna che sarebbe calata su di lui, a poche settimane dal voto, gli avrebbe fatto perdere popolarità. Il suo avvocato, pur essendo un amico fidato, non sarebbe stato in grado di limitare i danni.
Le gocce di sudore che si stavano formando all’altezza delle tempie, iniziarono a scendere perdendosi tra la barba.


Lascio cadere il telefono sulla poltroncina, tornando a concentrarmi sul listino dei trattamenti offerti dal centro estetico. Ma il flusso di pensieri che cerco invano di fermare, torna a scorrere.
Sono trascorsi tre lunghi anni e, nonostante le mie richieste, lui non ha lasciato la moglie. Sono vissuta di promesse e attese, all’ombra di un’altra donna, ma ora basta, o lei o me. Non c’è posto per entrambe nella vita di Maurizio Curti. Io devo essergli accanto il giorno dell’elezione o nelle foto ufficiali che mostrano il successo e il potere che negli anni si è guadagnato.
Erica Sarti, sarà pure la moglie ufficiale di Maurizio, ma è una sempliciotta, una che invece di godersi la vita con l’uomo di successo che ha sposato, viaggiando e facendo strisciare la carta di credito nei negozi più esclusivi, neanche ha lasciato il lavoro di infermiera alla clinica privata. «La moglie di un industriale che fa l’infermiera! Ma su, è un’assurdità.» «Ma sai, ama fare del bene, è la sua vocazione» mi ripeteva Maurizio per giustificare il comportamento anomalo di Erica. Ed è proprio quel buonismo melenso ciò che lo ha trattenuto dal chiedere il divorzio. Perché: «Poverina, non se lo merita.» Ma io sono stanca di sentire queste giustificazioni.
Quando Maurizio si è candidato a sindaco di Roma, Erica non era nemmeno presente tra le centinaia di sostenitori che applaudivano con entusiasmo appoggiando la campagna elettorale. Io, al contrario, gli sarei stata sempre accanto. Non avrei perso nessuna occasione per apparire elegante e raffinata: l’affascinante first lady al fianco dell’uomo che l’ha resa orgogliosa e ricca.
Dopotutto, Erica se l’è cercata. Avrebbe dovuto lasciarlo libero se non voleva vivere la vita che lui le ha offerto. Non lo merita.
Ma io non mi faccio fregare: Linda Battistini è stufa di stare in disparte.
Il mio telefono squilla di nuovo. Sul display appare il numero che stavo aspettavo.
«Ciao Claudio. Il  nostro amico ha finito il lavoro?» chiedo.
«Tutto sistemato» risponde.
«Bene.»
«Ci vediamo domani mattina alla stazione.»
«Sì, certo… Ora scusami, ma sono molto occupata.» Appoggio il telefono, sorridendo compiaciuta all’estetista che si sta prendendo cura delle mie unghie. Il futuro che ho pianificato è lì ad attendermi: niente più ostacoli, niente più rischi.
Siamo finalmente liberi.


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venerdì 19 maggio 2017

Esercizi di stile: Sono partita.

Cari tutti,
sì lo so cosa state pensando: “Eccola lì, pure da morta ci rompe con questa fissa per la scrittura!” Ma abbiate pazienza, sono le ultime righe e poi non vi ammorberò più chiedendovi di leggere cose scritte da me. Niente opere postume. Promesso.

Vi scrivo perché, come avrete notato, il mio vecchio corpo era ormai troppo stanco di portarmi a spasso e gli ho concesso la meritata pensione. Ho avuto una vita piena, ricca di persone, incontri, esperienze, arrivi e partenze, ho visto crescere i miei figli e diventare adulti di cui sono orgogliosa, ho avuto il piacere di diventare nonna, di poter leggere le mie fiabe ai nipoti e sono persino riuscita a conoscere due dei loro figli. Ho scritto e fatto tanto in questa vita. Sono stata molte cose: donna, madre, moglie felice, scrittrice, un ponte tra due culture, un orecchio al quale sfogarsi, un approdo a cui tornare.
Ma ora per favore, levatevi dal viso quell'espressione da funerale. Se il vecchio Lavoiser, che la sapeva lunga, aveva ragione nell'affermare che “nulla si crea, nulla si distrugge e tutto si trasforma” non dovremmo essere spaventati da qualcosa che di fatto non esiste, poiché è un’illusione creata dalla limitatezza dei nostri sguardi. Se questo principio vale per l’energia di cui ogni cosa è formata, deve valere anche per l’anima. Quindi festeggiate, auguratemi buon viaggio, perché sono partita. Non auguratemi di riposare in pace perché quello lo farà solo il mio corpo che, se avete seguito le mie ultime volontà, per la legge di cui sopra avrà già iniziato a trasformarsi in humus e a fertilizzare le camelie e le rose in fondo al giardino. E mi piacerebbe che guardando quei fiori riusciste a sentirmi ridere e vi possiate ricordare che non sono finita in qualche buio oblio di umana invenzione, ma che sono accanto a voi e sto anch'io godendo del profumo e dei colori di quei petali.
Mi spiace che molti di voi temano la morte e che non riescano ad accettare che si tratta solo di un passaggio da un’esistenza alla successiva, una porta e niente più.
Mi pare di sentirvi borbottare: “Eccola con le sue solite idee anticonformiste” brontolerà Luca; “A proposito, chi li prende i suoi libri sulla reincarnazione, i Veda e le tradizioni sciamaniche? A me non interessano” dirà Claudia, “A me i suoi budini vegani e quegli improbabili esperimenti culinari non mancheranno per niente!” riderà Ilaria.
Ecco, così vi vorrei: vivi, perché anche se io non vi starò più intorno voi siete ancora vivi e in quanto tali vivete e ridete e allontanate la tristezza della mia assenza. Rideteci su, ho solo iniziato un nuovo giro di giostra e potete immaginare la fatica nel dover ricominciare tutto da capo, tutta quella faccenda dei pannolini e i dentini e le pappine e gli annessi e connessi…

Ridete pure, tanto prima o poi capiterà anche a voi!

Vi abbraccio
S.




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lunedì 17 aprile 2017

Terrazza

Un lui, una lei ed una proposta... decente.


«Vuoi vedere una cosa interessante?»
«Cosa?»
«Sali un attimo da me.»
Oh mamma, ecco la vecchia scusa della collezione di farfalle. «Mah, veramente mi piace stare qui, l’aria è così fresca stasera. E avevi ragione, da questa panchina la vista è bellissima.» E c’è della gente intorno.
«Ma cos’hai pensato, dai, non ti sto invitando a casa mia per provarci,» ride, «voglio veramente farti vedere una cosa. Qualcosa che non hai mai visto, ne sono sicuro.»
«Puoi darmi qualche indizio? Tipo se sono francobolli rari o farfalle monarca allevate nell’armadio della tua camera da letto? Così per avere un’idea…»
«Né farfalle né francobolli, tranquilla.» Ride di nuovo.
Ah be’ allora…
«Abito all’ultimo piano, ma c’è l’ascensore, sul tetto c’è una terrazza che nessuno ha mai usato. Un anno fa ho iniziato a raccogliere del materiale e ogni momento libero lo passo lì.» Si alza prendendo le chiavi dalla tasca e si avvia verso il portone.
Gemma lo osserva, indecisa se seguirlo o lasciar perdere quel tipo insolito incontrato solo due settimane prima all’università. È un ragazzo interessante, condividono molti interessi e c’è qualcosa nei suoi modi che fin da subito ha carpito la sua attenzione. Attende che lui sparisca oltre il portone verde oliva e mettendo a tacere la vocina che sussurra con insistenza di non fidarsi, lo segue nell’androne. Non è rimasto ad aspettarla e l’ascensore è in movimento: secondo piano, terzo, quarto. Quando la luce si spegne preme il pulsante e nell’attesa che l’argano riporti la cabina al piano terra, controlla il cellulare. La batteria è al sessanta per cento. Almeno potrà chiamare qualcuno, in caso di bisogno. Ma che pensieri! Mica per forza dev’essere un maniaco! Ride di se stessa e di come la mente elabori i pensieri creando associazioni di idee e immagini a cascata, perlopiù negative.
Arrivata all’ultimo piano trova due porte di appartamenti e una breve scala in cima alla quale c’è Gregorio, appena oltre una porta metallica che da sulla terrazza. Sorride vedendola e nello sguardo gli nasce una luce somigliante a quella che dipinge gli occhi dei bambini la mattina di Natale.
«Vieni. Benvenuta nel mio regno.»
Gemma esce con esitazione. Non può fare a meno di aprire la bocca per lo stupore. La terrazza, che copre tutta la superficie del palazzo, è occupata da varie strutture, serre fatte con materiali di recupero, vasche piene di terra e piantine, semenzai e vasi un po’ ovunque. Ha l’aspetto di un orto botanico, un giardino appeso tra cielo e città.
«Qui ci sono le talee.» La accompagna nella serra più piccola. «Mi sto specializzando con le aromatiche, il rosmarino è fantastico, mi sta dando tante soddisfazioni. Ah, e guarda questa. La stevia, ne parlava ieri il professor Carli. Assaggia.» Ne strappa una foglia. «Il suo potere dolcificante è duecento volte superiore allo zucchero.»
«È un posto bellissimo, avevi ragione.»
«Ho anche una pianta di avocado, è molto delicata, ma guardala: non è splendida?»
«Riesci a coltivare piante tropicali qui!»
L’entusiasmo dell’amico e la bellezza del luogo fanno sciogliere ogni timore che l’aveva bloccata e Gemma si sente a casa. Seguono lunghe chiacchierate e descrizioni minuziose dell’attività che Gregorio svolge nel suo giardino segreto. Lasciano che la fresca brezza si impigli nei loro capelli e la luce crepuscolare della sera li avvolga regalando tonalità viola ai teli delle serre.
Il giardino sospeso di Gregorio diventa il loro laboratorio; dopo le lezioni di botanica all’università prendono l’abitudine di trascorrere pomeriggi e serate a coltivare e sperimentare in quell’esclusivo angolo di pace, col tempo diviene il teatro di chiacchierate lunghe notti intere e discussioni, ma anche luogo dove studiare o rilassarsi bevendo birra fresca dopo una giornata afosa.

Non rivelano a nessuno l’esistenza del giardino, anche se per Gemma è difficile spiegare alle coinquiline che Gregorio è solo un amico e che quando passa le notti in sua compagnia nessuno dei due dorme nel letto dell’altro. Le amiche sembrano non voler capire, ma in fondo a lei non interessa.


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venerdì 14 aprile 2017

Le mani

Erano seduti da un’ora ormai. Dopo essersi accavallate e rincorse, sputato accuse ed esploso bombe cariche di insinuazioni, le parole sembravano esaurite, prosciugate. Gli occhi si perdevano nei piatti pieni di cibo ormai freddo, scivolando poi nervosi tra gli altri clienti del ristorante. Lui teneva le mani sul tavolo, strette in pugni che gli sbiancavano le nocche. Lei si accaniva contro il tovagliolo che aveva in grembo. Lui afferrò il Negramaro e indugiò sul proprio bicchiere, ma anziché versarvi il vino, portò la bottiglia alla bocca lasciando che una generosa quantità scivolasse in gola.
Lei lo guardò senza poter fare a meno di emettere una risata nervosa. Si stropicciò le mani al di sopra del piatto e impugnò coltello e forchetta per infierire su un’inerme filetto fino a ridurlo in brandelli grandi quanto coriandoli. Quando ebbe finito posò le mani ai lati del piatto ed emise un respiro lungo e sofferente. «Sono così stanca…» Scosse la testa e spostò indietro la sedia per alzarsi.
Lui alzò la mano destra, avvicinandola istintivamente a quella di lei.
Lei osservò quel movimento come se il tempo si fosse preso una pausa: erano lì, nel loro ristorante preferito, quello dove lui le aveva chiesto di sposarla, quello dove avevano cenato ad ogni anniversario, lo stesso in cui ventidue anni prima si erano conosciuti lavorando come camerieri per pagarsi gli studi. Erano cambiati, la vita li aveva cambiati; restava solo l’ombra dei diciottenni sognatori e spregiudicati le cui esistenze si erano fuse quella lontana sera di settembre. Le sembrò che le persone agli altri tavoli si fossero zittite, tutte insieme, come le cicale nei pomeriggi torridi, o che se ne fossero andate lasciandoli soli.
Nella mente di lui scorse lenta l’immagine della sua mano che infilava all’anulare di lei un anello con brillanti, quello che gli era costato tutti i gioielli d’oro di cui sua madre era in possesso. La vide correre sulla spiaggia bianca in cui avevano trascorso la luna di miele, piena di vita e progetti. E poi quel periodo avvolto dalle ombre, infinito e paralizzante: il rapimento, le violenze subite, la paura di non fare ritorno a casa, la sensazione di morte nel cuore; e lei che, quando finalmente era stato ritrovato, si credeva ormai vedova. E poi il ritorno alla vita quotidiana, la riabilitazione, gli occhi curiosi dei vicini. E lei che gli rinfacciava di essere diverso, violento, che la persona che aveva sposato non era la stessa che aveva fatto ritorno dall’incubo.
Lei tenne lo sguardo fisso alle loro mani, distanti solo pochi centimetri. Trattenne il respiro e la mente la portò indietro a quella sera in cui lui le aveva sfiorato la mano e lei aveva sentito una scossa piacevole e inaspettata. Si erano guardati negli occhi e le era sembrato che non potessero esisterne di un blu più intenso. E la leggera pelle d’oca che a quel contatto le aveva avvolto la mano, salendo verso il braccio, aveva raggiunto la nuca provocandole un sorriso involontario. Riprese a respirare scoprendo di avere gli occhi lucidi e una gran voglia di piangere.
La mano di lui sfiorò le dita di lei e si bloccò, indecisa se proseguire e raggiungere l’obiettivo o fare marcia indietro. Era un gesto automatico o dettato da un suo reale bisogno di contatto fisico? O dal senso del dovere che lo spingeva a confortare la donna con cui nel bene e nel male aveva condiviso giorni, mesi e anni? Scendere a toccare la sua pelle poteva provocare in lei speranze o false illusioni.
Fu lei a rompere l’indugio di cui il marito sembrava vittima e a lasciare che la propria mano andasse incontro a quella di lui, rivolse il palmo verso l’alto e si ancorò alle sue dita lasciando che dagli occhi piovessero tutte le lacrime che erano rimaste a lungo in attesa.
Lui rispose a quella stretta senza esitazione e sfiorò il nero liquido degli occhi di sua moglie con la luce blu del proprio sguardo.
Appena lei scoppiò in un pianto convulso, l’incantesimo di cui erano stati vittima si sciolse, si resero conto di non essere soli e che molti dei clienti li stavano osservando incuriositi.
«Usciamo» disse lei singhiozzando.
«Sì, andiamo a casa.»


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martedì 11 aprile 2017

Slow motion

Raccontare un'esperienza attraverso un esercizio di scrittura. L'apparizione improvvisa di un animale sulla scena, un attimo che modifica lo scorrere del tempo. E le reazioni umane, le emozioni che produce in chi ne diventa testimone.


"Siamo in viaggio da meno di un’ora, l’autostrada è circondata dal buio e come un placido fiume d’asfalto si lascia solcare dalla nostra auto nella quasi totale assenza di altri mezzi. Guard rail a destra, siepe a sinistra. Mancano pochi chilometri alla nostra uscita.
In auto nessuno parla, sono quasi le due e qualcuno si è appisolato, i bambini dormono esausti per la giornata piena, mio marito guida ascoltando la radio a un volume così basso che il suono riempie a malapena la parte anteriore di abitacolo. Sono seduta dietro, nel posto centrale. Osservo la strada e mi lascio ipnotizzare dalla striscia di metà carreggiata: i suoi tratteggi mi conducono in un altrove leggero dove il sonno si fa pesante sulle palpebre e fare resistenza è davvero difficile. Ma non voglio dormire, devo parlare di tanto in tanto per assicurarmi che mio marito non venga vinto da un colpo di sonno.
Sto per abbandonarmi all’insistenza delle palpebre quando in una frazione di secondo un numero imprecisato di immagini, pensieri e reazioni umane si accavallano. Qualcuno deve aver premuto il tasto slow motion: una macchia cangiante si materializza di fronte a noi. Un cane dal pelo candido, di grosse dimensioni sbuca dalla siepe, si immobilizza, la luce dei fari rende i suoi occhi due fessure spettrali. Mio marito ha a malapena il tempo di formulare il pensiero di spostare il piede dall’acceleratore al freno. Grido terrorizzata. Non si sposta, non farà in tempo a spostarsi, non faremo in tempo a frenare, lo stiamo investendo. Chi si era addormentato viene svegliato di soprassalto dalle mie grida e dallo stridore della frenata. Gli siamo addosso, i fari si spengono, l’animale colpisce la nostra auto e finisce sotto le ruote.
I bambini si sono svegliati e piangono per lo spavento. L’auto sbanda leggermente e un attimo dopo siamo fermi sulla corsia d’emergenza, con le frecce posteriori come unica segnalazione della nostra presenza.
Siamo tutti scossi, l’auto è danneggiata, non si riaccende. Paraurti, targa e altri componenti sono andati persi, inghiottiti dal buio. Del grosso cane nessuna traccia, non è certo sopravvissuto ad un impatto con un’auto a centotrenta chilometri orari. Sono colpita da una doccia fredda fatta di rabbia, dolore e sollievo. Perché è impensabile un’autostrada senza barriere che impediscano l’attraversamento di persone e animali; è tremendo guardare negli occhi un animale con la certezza che sta per morire di una morte violenta a causa tua; ma poteva andare peggio, potevamo sbandare e finire fuori strada. Poi succede qualcosa che non mi aspetto, sono seduta accanto al guard rail e mi sento svuotata e un senso di leggerezza mi invade: in fondo stiamo bene, i bambini si sono già riaddormentati, il cugino di mio marito sta venendo a prenderci e ci trainerà fino a casa. Domani penseremo alla macchina e a come affrontare il viaggio di ritorno in Italia.
Passeranno molte notti prima che quegli occhi di spettro smettano di entrare nei miei sogni fissandomi con insistenza.


E se… se mio marito quella sera non si fosse abbandonato a un’azzardata inversione a u nel centro di Rabat, l’agente non ci avrebbe visto, fermato e fatto una multa. Se non avessimo perso quei dieci minuti, quel cane sarebbe uscito dalla siepe dopo il nostro passaggio e forse sarebbe ancora vivo. Forse."

Tutti i diritti riservati. Vietata la copia anche parziale.

lunedì 13 marzo 2017

L'orchestra

     Scrivere come piacevole passatempo o come costante esercizio mentale, scrivere perché se ne sente il bisogno o perché si ha qualcosa da dire. Si può scrivere per tanti motivi, io lo faccio perché è una necessità, un bisogno di svuotare la mente e creare storie e trame, personaggi e ambientazioni. Di seguito un esercizio che ho svolto durante il corso di scrittura creativa presso la Scuola Carver, incentrato sul focus tra personaggio e ambientazioni.


L’orchestra.

Il fischio del capotreno riempì l’aria di addii soffocando i saluti tra la donna col cappotto rosso e l’uomo smunto e allampanato che le stava di fronte. Lui abbassò la visiera del cappellino coprendosi il viso pallido e con passo pesante si avviò verso l’uscita della stazione. Claudicante a causa di un proiettile che aveva reso la sua andatura incerta, trascinò gli scarponcini in pelle di coccodrillo oltre le porte a vetri della palazzina stile liberty per raggiungere il parcheggio, dove una Jaguar nera lo attendeva col motore acceso.
«È andata» disse Klaus che sprofondando nel sedile richiuse la portiera. Diede un’occhiata all’orologio: «Abbiamo qualche ora prima dell’arrivo di Emma.» Si sbottonò la giacca e accompagnò alla bocca il sigaro che aveva l’abitudine di portare nel taschino interno, senza mai realmente fumarlo. «Una puntatina ai cavalli?»
«Eh, perché no.» Gabriele ingranò la prima e partì facendo stridere le gomme.
Il lungo viale ornato di platani secolari che dalla stazione portava al centro cittadino era un tappeto di foglie di ogni gradazione di rosso. La Jaguar lo percorse a gran velocità, incurante delle numerose pozzanghere che avrebbero schizzato chi camminava lungo il marciapiede.
«Voglio portarla al Ristorante La Rocca. Se lo merita» disse Klaus fissando un punto indefinito oltre il parabrezza.
«E l’appuntamento con Baldini stasera, per la consegna?»
«Possiamo vederlo dopo che l’avrò riaccompagnata in albergo. Meglio se non s’incontrano.»
L’auto s’incanalò nel flusso del traffico mattutino, tra finestrini appannati per la forte umidità e pedoni avviluppati in giacche e cappotti, autobus fermi davanti alle pensiline e fastidiosi lavori in corso. Uscirono velocemente dalla città lasciandosi inghiottire dalla fitta nebbia della periferia in direzione dell’ippodromo.
«Pensi che Emma manterrà la promessa?» chiese Gabriele con aria cupa. «Di andarsene.»
«Vuole cambiare aria, partirà con sua madre. Parlava del Sudamerica.»
«Quindi non la vedremo mai più» strinse con forza il volante e le nocche impallidirono.
«Lascia perdere, non le sei mai piaciuto. Niente scenate, chiaro? E poi lei non ci serve più, meglio che sparisca.» Klaus diede attenzione a ciò che scorreva oltre il finestrino alla sua destra mettendo fine alla conversazione. Non vide lo sguardo rabbioso di Gabriele alle sue spalle.

Quella sera avrebbero festeggiato il loro ultimo colpo da maestri, organizzato fin nei minimi dettagli e portato a segno da una squadra ben addestrata. Era come un’orchestra, ogni membro doveva mantenersi al proprio posto a suonare lo strumento che conosceva meglio, limitarsi ad eseguire la parte assegnata evitando di improvvisare. Sapevano bene che per nessun motivo era consentito contraddire Klaus, il direttore di quell'orchestra; colui che muovendo la bacchetta dirigeva il ritmo di violini e contrabbassi, clarinetti e tromboni, creando di volta in volta le giuste sinfonie e un’esecuzione impeccabile, con tanto di coup de theatre finale.

Tutti i diritti riservati. Vietata la copia anche parziale.

giovedì 9 febbraio 2017

Labirinti letterari

   Tra i tanti esercizi di scrittura e gli appunti sparsi, ci sono varie prove di "inizi". Gli incipit sono sempre la vetrina migliore che una storia possa esporre come biglietto da visita per il lettore curioso, quelle prime righe che lo prendono per mano e hanno il potere di coinvolgerlo a tal punto da nutrire la sua curiosità e indurlo a proseguire, riga dopo riga attraverso la narrazione.
   Scrivere incipit è molto stimolante, permette di partire dal punto zero entrando a passo svelto nell'azione di una storia, in medias res. Ne ho tanti, accumulati e tenuti da parte in vista di possibili usi futuri.
   Eccone uno che mi ha dato particolare soddisfazione in corso di stesura:


Labirinti.

Avanzava nei cunicoli, macinando terra umida sotto le suole gommose delle Clarks. Anche se la fuga nelle catacombe gli aveva dato un certo vantaggio, i suoi aggressori non sembravano intenzionati a mollare e, si sa, un testimone scomodo è quasi sempre un uomo morto.
Marcus decise di concedersi un attimo per prendere fiato e riorganizzare le idee. Mise una mano in tasca e prese il cellulare sfiorandolo per far tornare in vita lo schermo ma, com'era prevedibile, la batteria lo aveva abbandonato.
Era stato nel sottosuolo semibuio di Torino altre volte con visite guidate e torce elettriche per illuminare le gallerie, una volta persino per un concerto di musica sacra. Ora, quel labirinto di stretti passaggi lo soffocava come un budello senza fine. Doveva trovare la sala dell’altare popolata da angeli e demoni intenti a rappresentare l’eterna lotta tra bene e male, sapeva che da lì era possibile tornare in superficie, dove cercare aiuto.
Si sentiva addosso lo sguardo pesante di quell'infinità di orbite vuote, teschi che un tempo avevano ospitato anime e vissuto vite, oggi incastonati come pietre preziose nelle pareti terrose nella città dei morti.
Il silenzio umido che lo circondava si animò di un calpestio sommesso. Marcus si rannicchiò contro la parete, il respiro si fece affannoso e temette che i rintocchi del suo cuore potessero essere udibili anche a metri da lui. Si spostò verso una nicchia che ospitava delle reliquie, sembrava abbastanza buia per non farsi notare. Scostò con delicatezza le ossa per entrarvi e accucciarsi nell'ombra. Scusa, pensò sentendosi immediatamente stupido; al proprietario di quei resti non doveva importare un granché se venivano profanati.
I passi si avvicinarono e sostarono a lungo di fronte alla nicchia; poi gli scarponi neri arretrarono di qualche passo. Marcus sudò freddo temendo che le proprie impronte fossero visibili e che l’uomo stesse controllando il terreno. Se lo avesse scoperto sarebbe morto lì e i suoi resti si sarebbero mescolati a quelli dei poveri sventurati che già abitavano quei luoghi e, cosa peggiore, nessuno sarebbe mai venuto a saperlo.
«Ruben» gracchiò la radio alla cintola dello sconosciuto, «all'entrata est.» Si allontanò stringendo la pistola in una mano e la torcia nell'altra.
Marcus poté riprendere a respirare. Attese che i passi si spegnessero nel buio e uscì da quel giaciglio improvvisato. Camminò rapidamente nella direzione opposta augurandosi che fosse quella che conduceva alla via d’uscita, pregando che il rumore dei suoi passi non attirasse l’attenzione. Corse, quasi volando, svoltò a destra e poi a sinistra, un altro corridoio e la stanza dell’altare si aprì davanti a lui. La ripida scalinata in cima alla quale filtravano fasci di luce naturale condusse Marcus nell’atrio di Palazzo Saluzzo. Lasciò che l’aria fresca gli ripulisse i polmoni e attraversò il cortile interno per raggiungere la strada. Qui si guardò attorno nella speranza di scorgere una pattuglia o dei vigili urbani. Percorse metà isolato e finalmente intravide un’auto con lampeggiante e due agenti poco lontano. Iniziò a correre nella loro direzione agitando la mano per farsi notare.

«Agente! Hanno ucciso un uomo. Sono nelle catacombe. Mi stanno seguendo.»

Bene, se state pensando: "e ora? Cosa è successo? Come andrà a finire?" il mio scopo è stato raggiunto.

Tutti i diritti riservati. Vietata la copia anche parziale.

giovedì 12 gennaio 2017

Concorso 6 romanzi in cerca d'autore su Kobo di Mondadori


    Qualche mese fa Kobo Writing Life ha indetto un concorso per opere edite in self-publishing al quale ho deciso di partecipare con il mio romanzo Una porta sul passato.

    Chi possiede un account Mondadori o Kobo può scaricare l'anteprima gratuita o il romanzo stesso ed esprimere la propria valutazione, potete accedere da Kobo Store e inserire la valutazione in fondo alla pagina.
    C'è tempo fino al 20 febbraio per votare il libro, dopo questa data i primi 24 classificati verranno valutati da una giuria di esperti nel campo dell'editoria e della scrittura ed entro fine maggio verranno decretati 6 vincitori: 3 nella categoria inediti e 3 nella categoria self-publishing.

    Allora che aspettate, andate sul sito Kobo Writing Life e votate, votate, votate!!

6 ROMANZI IN CERCA D'AUTORE