ILLUSIONI
Si sentiva leggero, come se il
corpo avesse perso densità. La mente galleggiava in una nebbia alabastrina. Rannicchiato,
con le mani al petto, piegò la testa di lato: percepiva a malapena i fili
d’erba umidi di rugiada solleticargli la guancia. Un odore di rame gli riempiva
le narici. Aprì e richiuse gli occhi più volte. Un mazzo di narcisi selvatici
fu l’immagine sfuocata che fotografò prima che le sue palpebre si chiudessero su
quel mondo per l’ultima volta.
Sembra che il momento più buio
della notte sia quello che precede l’alba, ma per il piccolo borgo di Ghizzano,
il momento più buio sarebbe arrivato con il sole già alto nel cielo terso di
quella mattina di fine marzo.
Erano da poco passate le otto quando
Maia oltrepassò il cancello del vivaio “Il germoglio”, si addentrò tra siepi e
cipressi, sull’acciottolato che costeggiava le aiuole all’entrata. La notte
appena trascorsa aveva depositato un manto di goccioline che ora brillavano
impreziosendo ogni filo d’erba come tanti piccoli Swarovski.
L’aria era fresca, l’inverno aveva
finalmente lasciato il passo al tempo dei fiori e dei profumi; percepiva un
cambiamento, ma era qualcosa che andava oltre il semplice mutare della
stagione, era un sentimento di fiducia che sentiva crescerle dentro: ogni cosa
avrebbe trovato la propria collocazione. Eppure, c’era quella massa scura che le
riempiva il petto, un peso che con lo stratificarsi delle stagioni si era fatto
presenza ingombrante e niente sembrava in grado di cancellarne l’esistenza.
Ripensò allo sguardo di Luca quando
se n’era andato, la sera prima. C’era oscurità nei suoi occhi verdi, era
tormentato. Gli altri forse non l’avevano notato, ma per tutta la durata della
riunione in parrocchia lei aveva sentito il suo sguardo pesante addosso, aveva
provato imbarazzo e partecipato ben poco alla discussione, scribacchiando appunti
confusi riguardo le cose da fare per la festa dei giovani che stavano
organizzando; in realtà non ricordava quasi nulla di ciò che era stato detto.
Zeno l’aspettava vicino agli
orti, alzò una mano guatata salutandola, nell’altra stringeva una cesoia per la
potatura delle siepi di alloro. Avrebbero tolto le coperture invernali alle
ultime piantine di agrumi e lavorato ai semenzai custoditi nelle vasche col
coperchio di vetro.
«Io finisco al frutteto, vai
avanti tu qui?» le chiese quando gli fu vicino.
«Sì» rispose distratta Maia.
«Hai visto Luca stamattina?» domandò
con tono incerto.
«No. Perché?»
«Mah…» Si grattò i capelli radi
e brizzolati con movimenti meccanici: sembrava che dal giorno precedente fosse
invecchiato. «Era strano ieri sera.»
A Maia non sfuggì l’ombra nello
sguardo dell’uomo, anche se si eclissò dietro un sorriso sornione. Lo conosceva
da sempre, era il padre di Flavia, una delle sue migliori amiche, e da poco più
di un anno suo collega di lavoro al vivaio. Lo vide sparire nel frutteto mentre
lei andò alla rimessa dove venivano riposti utensili, sacchi di terriccio,
sementi e fertilizzanti biodinamici.
La ragazza cercò di concentrarsi
sul lavoro desiderando che il tormento di cui era vittima le scivolasse alle
spalle per qualche ora almeno. Aveva detto basta, ci era riuscita, dopo tanti
anni in cui era stata in balia di Luca, che dettava regole e condizioni, era
lei adesso ad avere in mano la situazione. Era stanca di restarsene buona in un
angolo: ora si sentiva libera e avrebbe potuto fingere di essere una qualsiasi
vent’enne di provincia con una vita normale, ordinaria. Questo, seppure fosse
ben consapevole che in un piccolo paese un taglio netto con il passato non era verosimile,
soprattutto quando il passato in questione viveva a poche case di distanza
dalla tua. Prese un lungo respiro e la brezza si fece strada dentro di lei
regalandole un senso di potenza e perfezione che da tempo non provava.
Alfio parcheggiò la Panda nello
spiazzo davanti al casale in stato di abbandono che spesso faceva da base alle
battute di caccia, aprì il baule e liberò i due cani impazienti di rincorrersi
e giocare tra loro. Si accese una sigaretta e aspirò con soddisfazione
osservando i due animali: un bracco e un pointer che lo accompagnavano nella
caccia al tartufo. Dietro di loro il panorama digradava verso valle e oltre le
colline in lontananza. Si passò una mano sulla barba ormai del tutto bianca che
gli toccava il petto, «Bea! Nemo!» li chiamò, «andiamo.» S’incamminò sul
sentiero che alla destra del casale si fondeva con la vegetazione: i cani lo precedevano.
Solo un giretto e sarebbe tornato al suo lavoro in falegnameria.
Dopo aver raggiunto il torrente
che scorreva più in basso, Alfio richiamò i cani per risalire dalla parte
opposta e tornare all’auto. Si poteva già intravvedere il muro sud
dell’abitazione quando Bea e Nemo fiutarono una scia che sembrò stuzzicare il
loro interesse e manifestarono una certa frenesia allontanandosi di qualche
passo dal sentiero. L’uomo risalì la scarpata per raggiungerli: si avvicinavano
e si ritraevano come in un balletto da ciò che a prima vista sembrava un
ammasso di vestiti abbandonati. Si accostò per vedere meglio, «Bea, Nemo,
venite via» gridò guardando l’orologio: doveva rientrare. «Incivili! Buttare la
spazzatura nei boschi. Che schifo.» Ma passando accanto a quel mucchio informe
si accorse che dentro i vestiti c’era il corpo rannicchiato di un uomo e che c’era
del sangue scuro, molto sangue, che aveva già attirato mosche e moscerini.
«Oh Dio» sussurrò incapace di gridare
come avrebbe voluto. Si portò una mano tremante alla bocca per soffocare un
conato. L’istinto lo guidò a tastare il polso dello sconosciuto trattenendo il
respiro nella speranza di percepire un battito.
Quell’uomo seminascosto tra l’erba
era morto.
Si chinò per vedere chi fosse e
un grido squarciò il silenzio del bosco percorrendo i pochi chilometri che lo
separavano dal paese. Alfio non avrebbe saputo dire se quel grido fosse
scaturito dalla propria gola o da quella di qualcun altro.
Indietreggiò disorientato, sbilanciandosi.
Quasi cadde all’indietro. Aggrappandosi al tronco di una quercia ritrovò l’equilibrio
e la forza per estrarre il cellulare dalla tasca e chiamare il 112.
«…nel bosco sotto Ghizzano... è
don Luca… è morto!»
E poi, tutto fu confuso: la
corsa per tornare alla macchina dove attese per un tempo che gli sembrò
interminabile, l’arrivo dei carabinieri, l’ambulanza, la telefonata confusa
fatta alla moglie, il rumore sordo delle sirene e ancora, le domande, la paura,
lo shock.
Don Luca, rispettato sacerdote
del paese, cinquant’anni da poco compiuti, amato e rispettato da tutti. Don
Luca che aveva preso i voti nonostante i successi scolastici e quell’aspetto da
divo del cinema, “bello e dannato”. Don Luca che rideva delle battute dei
giovani: una chitarra, un falò e perché no qualche goccio di vino, “ma non ditelo ai vostri genitori”, diceva.
Don Luca che giaceva su una tomba d’erba fuori paese, brutalmente assassinato.
Secondo l’autopsia erano state otto
le coltellate che l’avevano condotto all’oblio. Ma l’arma del delitto, di cui
non era stata trovata traccia, non era un coltello: i bordi frastagliati delle
ferite e la larghezza dell’incisione avevano portato gli inquirenti a dedurre
che si trattasse di un paio di grosse forbici o, con molta probabilità, un paio
di cesoie da siepe.
Chi le avesse impugnate e
perché, sarebbe rimasto un mistero.
“Chiunque abbia ucciso Luca, ha
rimesso le cose a posto”, pensò Maia un mese più tardi.
Forse era l’unico modo per farlo
smettere.
Non l’avrebbe più infastidita,
non avrebbe più infastidito nessun’altra. Erano libere.
Una fitta al ventre la fece
tornare ferocemente con i piedi per terra: anche se lui non era più in grado di
tormentarla, c’era qualcosa che gliel’avrebbe ricordato per i giorni e gli anni
a venire. Paure che sembravano sopite tornarono prepotenti a farsi strada nella
sua mente: era troppo tardi per prendere provvedimenti. Era costretta a seguire
la deriva della propria esistenza, arrendersi alla corrente, sperando di non
venirne travolta.