lunedì 21 maggio 2018

"Illusioni", un mio racconto giallo ambientato tra le colline della provincia di Pisa


ILLUSIONI

Si sentiva leggero, come se il corpo avesse perso densità. La mente galleggiava in una nebbia alabastrina. Rannicchiato, con le mani al petto, piegò la testa di lato: percepiva a malapena i fili d’erba umidi di rugiada solleticargli la guancia. Un odore di rame gli riempiva le narici. Aprì e richiuse gli occhi più volte. Un mazzo di narcisi selvatici fu l’immagine sfuocata che fotografò prima che le sue palpebre si chiudessero su quel mondo per l’ultima volta.

Sembra che il momento più buio della notte sia quello che precede l’alba, ma per il piccolo borgo di Ghizzano, il momento più buio sarebbe arrivato con il sole già alto nel cielo terso di quella mattina di fine marzo.
Erano da poco passate le otto quando Maia oltrepassò il cancello del vivaio “Il germoglio”, si addentrò tra siepi e cipressi, sull’acciottolato che costeggiava le aiuole all’entrata. La notte appena trascorsa aveva depositato un manto di goccioline che ora brillavano impreziosendo ogni filo d’erba come tanti piccoli Swarovski.
L’aria era fresca, l’inverno aveva finalmente lasciato il passo al tempo dei fiori e dei profumi; percepiva un cambiamento, ma era qualcosa che andava oltre il semplice mutare della stagione, era un sentimento di fiducia che sentiva crescerle dentro: ogni cosa avrebbe trovato la propria collocazione. Eppure, c’era quella massa scura che le riempiva il petto, un peso che con lo stratificarsi delle stagioni si era fatto presenza ingombrante e niente sembrava in grado di cancellarne l’esistenza.
Ripensò allo sguardo di Luca quando se n’era andato, la sera prima. C’era oscurità nei suoi occhi verdi, era tormentato. Gli altri forse non l’avevano notato, ma per tutta la durata della riunione in parrocchia lei aveva sentito il suo sguardo pesante addosso, aveva provato imbarazzo e partecipato ben poco alla discussione, scribacchiando appunti confusi riguardo le cose da fare per la festa dei giovani che stavano organizzando; in realtà non ricordava quasi nulla di ciò che era stato detto.
Zeno l’aspettava vicino agli orti, alzò una mano guatata salutandola, nell’altra stringeva una cesoia per la potatura delle siepi di alloro. Avrebbero tolto le coperture invernali alle ultime piantine di agrumi e lavorato ai semenzai custoditi nelle vasche col coperchio di vetro.
«Io finisco al frutteto, vai avanti tu qui?» le chiese quando gli fu vicino.
«Sì» rispose distratta Maia.
«Hai visto Luca stamattina?» domandò con tono incerto.
«No. Perché?»
«Mah…» Si grattò i capelli radi e brizzolati con movimenti meccanici: sembrava che dal giorno precedente fosse invecchiato. «Era strano ieri sera.»
A Maia non sfuggì l’ombra nello sguardo dell’uomo, anche se si eclissò dietro un sorriso sornione. Lo conosceva da sempre, era il padre di Flavia, una delle sue migliori amiche, e da poco più di un anno suo collega di lavoro al vivaio. Lo vide sparire nel frutteto mentre lei andò alla rimessa dove venivano riposti utensili, sacchi di terriccio, sementi e fertilizzanti biodinamici.
La ragazza cercò di concentrarsi sul lavoro desiderando che il tormento di cui era vittima le scivolasse alle spalle per qualche ora almeno. Aveva detto basta, ci era riuscita, dopo tanti anni in cui era stata in balia di Luca, che dettava regole e condizioni, era lei adesso ad avere in mano la situazione. Era stanca di restarsene buona in un angolo: ora si sentiva libera e avrebbe potuto fingere di essere una qualsiasi vent’enne di provincia con una vita normale, ordinaria. Questo, seppure fosse ben consapevole che in un piccolo paese un taglio netto con il passato non era verosimile, soprattutto quando il passato in questione viveva a poche case di distanza dalla tua. Prese un lungo respiro e la brezza si fece strada dentro di lei regalandole un senso di potenza e perfezione che da tempo non provava.

Alfio parcheggiò la Panda nello spiazzo davanti al casale in stato di abbandono che spesso faceva da base alle battute di caccia, aprì il baule e liberò i due cani impazienti di rincorrersi e giocare tra loro. Si accese una sigaretta e aspirò con soddisfazione osservando i due animali: un bracco e un pointer che lo accompagnavano nella caccia al tartufo. Dietro di loro il panorama digradava verso valle e oltre le colline in lontananza. Si passò una mano sulla barba ormai del tutto bianca che gli toccava il petto, «Bea! Nemo!» li chiamò, «andiamo.» S’incamminò sul sentiero che alla destra del casale si fondeva con la vegetazione: i cani lo precedevano. Solo un giretto e sarebbe tornato al suo lavoro in falegnameria.
Dopo aver raggiunto il torrente che scorreva più in basso, Alfio richiamò i cani per risalire dalla parte opposta e tornare all’auto. Si poteva già intravvedere il muro sud dell’abitazione quando Bea e Nemo fiutarono una scia che sembrò stuzzicare il loro interesse e manifestarono una certa frenesia allontanandosi di qualche passo dal sentiero. L’uomo risalì la scarpata per raggiungerli: si avvicinavano e si ritraevano come in un balletto da ciò che a prima vista sembrava un ammasso di vestiti abbandonati. Si accostò per vedere meglio, «Bea, Nemo, venite via» gridò guardando l’orologio: doveva rientrare. «Incivili! Buttare la spazzatura nei boschi. Che schifo.» Ma passando accanto a quel mucchio informe si accorse che dentro i vestiti c’era il corpo rannicchiato di un uomo e che c’era del sangue scuro, molto sangue, che aveva già attirato mosche e moscerini.
«Oh Dio» sussurrò incapace di gridare come avrebbe voluto. Si portò una mano tremante alla bocca per soffocare un conato. L’istinto lo guidò a tastare il polso dello sconosciuto trattenendo il respiro nella speranza di percepire un battito.
Quell’uomo seminascosto tra l’erba era morto.
Si chinò per vedere chi fosse e un grido squarciò il silenzio del bosco percorrendo i pochi chilometri che lo separavano dal paese. Alfio non avrebbe saputo dire se quel grido fosse scaturito dalla propria gola o da quella di qualcun altro.
Indietreggiò disorientato, sbilanciandosi. Quasi cadde all’indietro. Aggrappandosi al tronco di una quercia ritrovò l’equilibrio e la forza per estrarre il cellulare dalla tasca e chiamare il 112.
«…nel bosco sotto Ghizzano... è don Luca… è morto!»
E poi, tutto fu confuso: la corsa per tornare alla macchina dove attese per un tempo che gli sembrò interminabile, l’arrivo dei carabinieri, l’ambulanza, la telefonata confusa fatta alla moglie, il rumore sordo delle sirene e ancora, le domande, la paura, lo shock.
Don Luca, rispettato sacerdote del paese, cinquant’anni da poco compiuti, amato e rispettato da tutti. Don Luca che aveva preso i voti nonostante i successi scolastici e quell’aspetto da divo del cinema, “bello e dannato”. Don Luca che rideva delle battute dei giovani: una chitarra, un falò e perché no qualche goccio di vino, “ma non ditelo ai vostri genitori”, diceva. Don Luca che giaceva su una tomba d’erba fuori paese, brutalmente assassinato.
Secondo l’autopsia erano state otto le coltellate che l’avevano condotto all’oblio. Ma l’arma del delitto, di cui non era stata trovata traccia, non era un coltello: i bordi frastagliati delle ferite e la larghezza dell’incisione avevano portato gli inquirenti a dedurre che si trattasse di un paio di grosse forbici o, con molta probabilità, un paio di cesoie da siepe.
Chi le avesse impugnate e perché, sarebbe rimasto un mistero.


“Chiunque abbia ucciso Luca, ha rimesso le cose a posto”, pensò Maia un mese più tardi.
Forse era l’unico modo per farlo smettere.
Non l’avrebbe più infastidita, non avrebbe più infastidito nessun’altra. Erano libere.
Una fitta al ventre la fece tornare ferocemente con i piedi per terra: anche se lui non era più in grado di tormentarla, c’era qualcosa che gliel’avrebbe ricordato per i giorni e gli anni a venire. Paure che sembravano sopite tornarono prepotenti a farsi strada nella sua mente: era troppo tardi per prendere provvedimenti. Era costretta a seguire la deriva della propria esistenza, arrendersi alla corrente, sperando di non venirne travolta.


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