lunedì 17 aprile 2017

Terrazza

Un lui, una lei ed una proposta... decente.


«Vuoi vedere una cosa interessante?»
«Cosa?»
«Sali un attimo da me.»
Oh mamma, ecco la vecchia scusa della collezione di farfalle. «Mah, veramente mi piace stare qui, l’aria è così fresca stasera. E avevi ragione, da questa panchina la vista è bellissima.» E c’è della gente intorno.
«Ma cos’hai pensato, dai, non ti sto invitando a casa mia per provarci,» ride, «voglio veramente farti vedere una cosa. Qualcosa che non hai mai visto, ne sono sicuro.»
«Puoi darmi qualche indizio? Tipo se sono francobolli rari o farfalle monarca allevate nell’armadio della tua camera da letto? Così per avere un’idea…»
«Né farfalle né francobolli, tranquilla.» Ride di nuovo.
Ah be’ allora…
«Abito all’ultimo piano, ma c’è l’ascensore, sul tetto c’è una terrazza che nessuno ha mai usato. Un anno fa ho iniziato a raccogliere del materiale e ogni momento libero lo passo lì.» Si alza prendendo le chiavi dalla tasca e si avvia verso il portone.
Gemma lo osserva, indecisa se seguirlo o lasciar perdere quel tipo insolito incontrato solo due settimane prima all’università. È un ragazzo interessante, condividono molti interessi e c’è qualcosa nei suoi modi che fin da subito ha carpito la sua attenzione. Attende che lui sparisca oltre il portone verde oliva e mettendo a tacere la vocina che sussurra con insistenza di non fidarsi, lo segue nell’androne. Non è rimasto ad aspettarla e l’ascensore è in movimento: secondo piano, terzo, quarto. Quando la luce si spegne preme il pulsante e nell’attesa che l’argano riporti la cabina al piano terra, controlla il cellulare. La batteria è al sessanta per cento. Almeno potrà chiamare qualcuno, in caso di bisogno. Ma che pensieri! Mica per forza dev’essere un maniaco! Ride di se stessa e di come la mente elabori i pensieri creando associazioni di idee e immagini a cascata, perlopiù negative.
Arrivata all’ultimo piano trova due porte di appartamenti e una breve scala in cima alla quale c’è Gregorio, appena oltre una porta metallica che da sulla terrazza. Sorride vedendola e nello sguardo gli nasce una luce somigliante a quella che dipinge gli occhi dei bambini la mattina di Natale.
«Vieni. Benvenuta nel mio regno.»
Gemma esce con esitazione. Non può fare a meno di aprire la bocca per lo stupore. La terrazza, che copre tutta la superficie del palazzo, è occupata da varie strutture, serre fatte con materiali di recupero, vasche piene di terra e piantine, semenzai e vasi un po’ ovunque. Ha l’aspetto di un orto botanico, un giardino appeso tra cielo e città.
«Qui ci sono le talee.» La accompagna nella serra più piccola. «Mi sto specializzando con le aromatiche, il rosmarino è fantastico, mi sta dando tante soddisfazioni. Ah, e guarda questa. La stevia, ne parlava ieri il professor Carli. Assaggia.» Ne strappa una foglia. «Il suo potere dolcificante è duecento volte superiore allo zucchero.»
«È un posto bellissimo, avevi ragione.»
«Ho anche una pianta di avocado, è molto delicata, ma guardala: non è splendida?»
«Riesci a coltivare piante tropicali qui!»
L’entusiasmo dell’amico e la bellezza del luogo fanno sciogliere ogni timore che l’aveva bloccata e Gemma si sente a casa. Seguono lunghe chiacchierate e descrizioni minuziose dell’attività che Gregorio svolge nel suo giardino segreto. Lasciano che la fresca brezza si impigli nei loro capelli e la luce crepuscolare della sera li avvolga regalando tonalità viola ai teli delle serre.
Il giardino sospeso di Gregorio diventa il loro laboratorio; dopo le lezioni di botanica all’università prendono l’abitudine di trascorrere pomeriggi e serate a coltivare e sperimentare in quell’esclusivo angolo di pace, col tempo diviene il teatro di chiacchierate lunghe notti intere e discussioni, ma anche luogo dove studiare o rilassarsi bevendo birra fresca dopo una giornata afosa.

Non rivelano a nessuno l’esistenza del giardino, anche se per Gemma è difficile spiegare alle coinquiline che Gregorio è solo un amico e che quando passa le notti in sua compagnia nessuno dei due dorme nel letto dell’altro. Le amiche sembrano non voler capire, ma in fondo a lei non interessa.


Tutti i diritti riservati. Vietata la copia anche parziale.

venerdì 14 aprile 2017

Le mani

Erano seduti da un’ora ormai. Dopo essersi accavallate e rincorse, sputato accuse ed esploso bombe cariche di insinuazioni, le parole sembravano esaurite, prosciugate. Gli occhi si perdevano nei piatti pieni di cibo ormai freddo, scivolando poi nervosi tra gli altri clienti del ristorante. Lui teneva le mani sul tavolo, strette in pugni che gli sbiancavano le nocche. Lei si accaniva contro il tovagliolo che aveva in grembo. Lui afferrò il Negramaro e indugiò sul proprio bicchiere, ma anziché versarvi il vino, portò la bottiglia alla bocca lasciando che una generosa quantità scivolasse in gola.
Lei lo guardò senza poter fare a meno di emettere una risata nervosa. Si stropicciò le mani al di sopra del piatto e impugnò coltello e forchetta per infierire su un’inerme filetto fino a ridurlo in brandelli grandi quanto coriandoli. Quando ebbe finito posò le mani ai lati del piatto ed emise un respiro lungo e sofferente. «Sono così stanca…» Scosse la testa e spostò indietro la sedia per alzarsi.
Lui alzò la mano destra, avvicinandola istintivamente a quella di lei.
Lei osservò quel movimento come se il tempo si fosse preso una pausa: erano lì, nel loro ristorante preferito, quello dove lui le aveva chiesto di sposarla, quello dove avevano cenato ad ogni anniversario, lo stesso in cui ventidue anni prima si erano conosciuti lavorando come camerieri per pagarsi gli studi. Erano cambiati, la vita li aveva cambiati; restava solo l’ombra dei diciottenni sognatori e spregiudicati le cui esistenze si erano fuse quella lontana sera di settembre. Le sembrò che le persone agli altri tavoli si fossero zittite, tutte insieme, come le cicale nei pomeriggi torridi, o che se ne fossero andate lasciandoli soli.
Nella mente di lui scorse lenta l’immagine della sua mano che infilava all’anulare di lei un anello con brillanti, quello che gli era costato tutti i gioielli d’oro di cui sua madre era in possesso. La vide correre sulla spiaggia bianca in cui avevano trascorso la luna di miele, piena di vita e progetti. E poi quel periodo avvolto dalle ombre, infinito e paralizzante: il rapimento, le violenze subite, la paura di non fare ritorno a casa, la sensazione di morte nel cuore; e lei che, quando finalmente era stato ritrovato, si credeva ormai vedova. E poi il ritorno alla vita quotidiana, la riabilitazione, gli occhi curiosi dei vicini. E lei che gli rinfacciava di essere diverso, violento, che la persona che aveva sposato non era la stessa che aveva fatto ritorno dall’incubo.
Lei tenne lo sguardo fisso alle loro mani, distanti solo pochi centimetri. Trattenne il respiro e la mente la portò indietro a quella sera in cui lui le aveva sfiorato la mano e lei aveva sentito una scossa piacevole e inaspettata. Si erano guardati negli occhi e le era sembrato che non potessero esisterne di un blu più intenso. E la leggera pelle d’oca che a quel contatto le aveva avvolto la mano, salendo verso il braccio, aveva raggiunto la nuca provocandole un sorriso involontario. Riprese a respirare scoprendo di avere gli occhi lucidi e una gran voglia di piangere.
La mano di lui sfiorò le dita di lei e si bloccò, indecisa se proseguire e raggiungere l’obiettivo o fare marcia indietro. Era un gesto automatico o dettato da un suo reale bisogno di contatto fisico? O dal senso del dovere che lo spingeva a confortare la donna con cui nel bene e nel male aveva condiviso giorni, mesi e anni? Scendere a toccare la sua pelle poteva provocare in lei speranze o false illusioni.
Fu lei a rompere l’indugio di cui il marito sembrava vittima e a lasciare che la propria mano andasse incontro a quella di lui, rivolse il palmo verso l’alto e si ancorò alle sue dita lasciando che dagli occhi piovessero tutte le lacrime che erano rimaste a lungo in attesa.
Lui rispose a quella stretta senza esitazione e sfiorò il nero liquido degli occhi di sua moglie con la luce blu del proprio sguardo.
Appena lei scoppiò in un pianto convulso, l’incantesimo di cui erano stati vittima si sciolse, si resero conto di non essere soli e che molti dei clienti li stavano osservando incuriositi.
«Usciamo» disse lei singhiozzando.
«Sì, andiamo a casa.»


Tutti i diritti riservati. Vietata la copia anche parziale.

martedì 11 aprile 2017

Slow motion

Raccontare un'esperienza attraverso un esercizio di scrittura. L'apparizione improvvisa di un animale sulla scena, un attimo che modifica lo scorrere del tempo. E le reazioni umane, le emozioni che produce in chi ne diventa testimone.


"Siamo in viaggio da meno di un’ora, l’autostrada è circondata dal buio e come un placido fiume d’asfalto si lascia solcare dalla nostra auto nella quasi totale assenza di altri mezzi. Guard rail a destra, siepe a sinistra. Mancano pochi chilometri alla nostra uscita.
In auto nessuno parla, sono quasi le due e qualcuno si è appisolato, i bambini dormono esausti per la giornata piena, mio marito guida ascoltando la radio a un volume così basso che il suono riempie a malapena la parte anteriore di abitacolo. Sono seduta dietro, nel posto centrale. Osservo la strada e mi lascio ipnotizzare dalla striscia di metà carreggiata: i suoi tratteggi mi conducono in un altrove leggero dove il sonno si fa pesante sulle palpebre e fare resistenza è davvero difficile. Ma non voglio dormire, devo parlare di tanto in tanto per assicurarmi che mio marito non venga vinto da un colpo di sonno.
Sto per abbandonarmi all’insistenza delle palpebre quando in una frazione di secondo un numero imprecisato di immagini, pensieri e reazioni umane si accavallano. Qualcuno deve aver premuto il tasto slow motion: una macchia cangiante si materializza di fronte a noi. Un cane dal pelo candido, di grosse dimensioni sbuca dalla siepe, si immobilizza, la luce dei fari rende i suoi occhi due fessure spettrali. Mio marito ha a malapena il tempo di formulare il pensiero di spostare il piede dall’acceleratore al freno. Grido terrorizzata. Non si sposta, non farà in tempo a spostarsi, non faremo in tempo a frenare, lo stiamo investendo. Chi si era addormentato viene svegliato di soprassalto dalle mie grida e dallo stridore della frenata. Gli siamo addosso, i fari si spengono, l’animale colpisce la nostra auto e finisce sotto le ruote.
I bambini si sono svegliati e piangono per lo spavento. L’auto sbanda leggermente e un attimo dopo siamo fermi sulla corsia d’emergenza, con le frecce posteriori come unica segnalazione della nostra presenza.
Siamo tutti scossi, l’auto è danneggiata, non si riaccende. Paraurti, targa e altri componenti sono andati persi, inghiottiti dal buio. Del grosso cane nessuna traccia, non è certo sopravvissuto ad un impatto con un’auto a centotrenta chilometri orari. Sono colpita da una doccia fredda fatta di rabbia, dolore e sollievo. Perché è impensabile un’autostrada senza barriere che impediscano l’attraversamento di persone e animali; è tremendo guardare negli occhi un animale con la certezza che sta per morire di una morte violenta a causa tua; ma poteva andare peggio, potevamo sbandare e finire fuori strada. Poi succede qualcosa che non mi aspetto, sono seduta accanto al guard rail e mi sento svuotata e un senso di leggerezza mi invade: in fondo stiamo bene, i bambini si sono già riaddormentati, il cugino di mio marito sta venendo a prenderci e ci trainerà fino a casa. Domani penseremo alla macchina e a come affrontare il viaggio di ritorno in Italia.
Passeranno molte notti prima che quegli occhi di spettro smettano di entrare nei miei sogni fissandomi con insistenza.


E se… se mio marito quella sera non si fosse abbandonato a un’azzardata inversione a u nel centro di Rabat, l’agente non ci avrebbe visto, fermato e fatto una multa. Se non avessimo perso quei dieci minuti, quel cane sarebbe uscito dalla siepe dopo il nostro passaggio e forse sarebbe ancora vivo. Forse."

Tutti i diritti riservati. Vietata la copia anche parziale.