mercoledì 19 dicembre 2018

Il cambiamento: spauracchio o necessità.

Una delle cose che più temiamo in quanto esseri umani è il cambiamento.
Cambiare spaventa, non c'è storia. Ognuno di noi prova almeno un po' di ansia in vista di un trasloco, di un cambio di lavoro, di un imprevisto che rimescola le carte in tavola e ci costringe a modificare i nostri piani o ad annullarle ciò che ci eravamo prefissati.
Cambiare: verbo che implica una modifica di stato, una trasformazione, una sostituzione, l'assumere un aspetto diverso.
Il cambiamento fa parte della vita stessa, nulla resta immutato nel tempo, nel mondo naturale tutto è soggetto a cambiamento di stato, il concetto stesso di evoluzione implica che sia in atto una qualche mutazione in funzione del raggiungimento di nuovi risultati, nuove forme, miglioramenti e obiettivi.
Opporsi al cambiamento perché se ne ha timore è comune nei tempi moderni, ma non è certo una malattia di recente acquisizione: infatti la saggezza popolare ci insegna che "lasciando la strada vecchia per la nuova si sa cosa si lascia ma non cosa si trova" ed ecco con poche parole instillato il timore del nuovo e del diverso. Nuovo e diverso che possono presentarsi in svariate forme e situazioni, e così appare più semplice restare fermi nel territorio che ben si conosce e che nonostante ci crei dolore e disagio, malesseri più o meno seri, è comunque una dimensione con la quale abbiamo dimestichezza e in cui sappiamo come muoverci. Senza contare che abbandonare quello spazio significa rischiare di imbattersi in una situazione peggiore, chi ci garantisce infatti che sacrificando tutto ciò che di conosciuto abbiamo non ci capiti di regredire anziché migliorare la nostra situazione?
Eppure, opporsi al cambiamento è, nella quasi totalità dei casi, controproducente.
Perché anche se stare immersi nella melma fino al collo ci impedisce ogni movimento, amiamo ripeterci che in fondo lì siamo al sicuro, che conosciamo quella melma, la sua composizione microbiologica, la massa, il peso e come si comporta a contatto con il nostro corpo, ci sentiamo parte di quella sostanza e ci crediamo a tal punto che ci sembra persino normale trovarci lì in mezzo.
Ma quando saranno trascorsi mesi, e i mesi saranno diventati anni, cosa avremo ottenuto costringendoci in quella melma? Volteremo la testa e ci renderemo conto che nel frattempo molti si sono spostati, ad un certo punto hanno deciso di uscire dalla vischiosa sicurezza che li aveva custoditi, hanno faticato, sofferto, perso certezze, fallito in certi ambiti, ma affrontando l'ignoto, quel salto oltre il muro, hanno deciso e accettato di cambiare, modificare il punto di vista, alzare lo sguardo e vedere che oltre c'era di più, guadagnando una libertà di movimento fino a quel momento impossibile.
Uscire dalla propria zona di comfort significa camminare per strade nuove, poter intraprendere percorsi sconosciuti, magari impervi, disseminati di rischi, strade lungo le quali è possibile fare incontri poco raccomandabili, inciampare e cadere, farsi male, piangere e soffrire. Ma oltre agli aspetti meno piacevoli del cambiare, quanto di buono può essere lì ad attenderci? E quanto di questo ci precludiamo restando barricati al calduccio nella nostra zona di comfort? Non possiamo sapere in cosa ci imbatteremo se decidiamo di abbracciare il cambiamento, non ci è permesso conoscere il futuro, e anche questo fa parte del grande gioco che è la vita, va accettato e affrontato.

Partendo dal presupposto che ognuno di noi è al mondo con uno scopo, una missione personale, più o meno evidente ai nostri occhi miopi e limitati di esseri umani, diviene facile capire che ogni strada intrapresa porterà non solo aria nuova alla nostra esistenza, ma anche opportunità e incontri che nel disegno dell'universo hanno una loro logica. Quante volte ci capita di riflettere su degli incontri fortuiti o su certe scelte magari fatte in maniera affrettata, che ci hanno condotto in direzioni mai prese in considerazione fino a poco prima? Perché in quanto individui siamo immersi in una moltitudine di legami e connessioni interpersonali che come tanti fili invisibili ci tirano di qua e di là come marionette spesso del tutto inconsapevoli.
Accettiamo di sederci da un lato e osservare il quadro a una ragionevole distanza, guardarlo nella sua interezza, cambiare prospettiva e punto di vista aiuta a non sentirsi radicati, ad assecondare quella innata necessità al cambiamento.
Di recente ho notato un aumento di consapevolezza nelle persone, sempre più introspezione, quel fermarsi a chiedersi dove si è diretti e perché, cosa o chi ci ha imposto o influenzato nelle scelte che condizionano ogni giorno la nostra esistenza. Come stiamo "usando" il nostro tempo, come lo investiamo, lo perdiamo, lo sfruttiamo. Cosa vogliamo dal futuro e da noi stessi.
E uscire dalla zona di comfort diventa una necessità impellente, una scelta, un cambiamento che non può più aspettare, va assecondato e prenderne atto è il primo passo, l'accettazione di un bisogno che se restasse inascoltato scaverebbe solchi profondi su di noi e come cicatrici segnerebbero la nostra pelle. Per sempre.
Vogliamo, un giorno, guardarci indietro e rimpiangere di non aver trovato il coraggio per affrontare il rischio? Lo vogliamo davvero?

"C’è una forza motrice più forte del vapore, dell’elettricità e dell’energia atomica: la volontà."
Albert Einstein

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martedì 7 agosto 2018

La lista delle piccole cose

   Capitano a tutti, prima o poi, dei periodi no. Ci sono giorni, a volte settimane o mesi, in cui per i più svariati motivi ci sentiamo a terra: umore variabile perlopiù tendente al nero, assenza di stimoli, voglia di fare ridotta all'osso, propensione alla socialità pari a zero, visione futura da film catastrofista-distopico-postapocalittico. Alzi la mano chi non si è mai ritrovato in uno stato di sconforto o -si spera sempre passeggera- depressione.
   Ebbene, proprio in quei giorni in cui tutto si ricopre di una tonalità grigiolina e anche il solo pensiero di alzarsi dal letto e iniziare una nuova giornata sembra difficile quanto imbarcarsi per un viaggio interplanetario, ecco che pare un'ottima idea tirare fuori dal cassetto una lista fatta nei giorni in cui nella nostra vita splendeva il sole, quei giorni che sembrano ora appartenere a qualche altro essere umano, distanti anni luce, tanto da rendere il suono di quelle risate un eco ormai spento.
   Una lista, buttata giù a caso, senza troppe pretese di correttezza o mantenimento dei margini, senza ordine di importanza o cura dell'estetica nella scrittura, una lista fatta un po' a casaccio insomma, ma che ci faccia da promemoria per quei giorni di smemoratezza che ci portano lontano dalla preziosa bellezza insita nella vita, in ogni vita. Perché in fondo ogni esistenza, anche la più disastrata, è costellata da una miriade di momenti, attimi, immagini, suoni e sensazioni che la rendono meravigliosamente degna di essere vissuta, assaporata, consumata sorso dopo sorso, senza rimpianti.
   La mia lista delle piccole cose (ma che in realtà sono anche molto, molto più grandi di quanto il nostro limitato sguardo sia in grado di vedere) assomiglia a questa:

un gesto gentile inaspettato, il primo morso dato ad una mela croccante, guidare lungo una strada attraverso il bosco e ascoltare il frinire delle cicale, un tuffo in piscina dopo una giornata di lavoro, il sorriso di un bambino sconosciuto in coda al supermercato, il canto dei grilli in una notte estiva, fare una gaffe e ridere di me stessa, una farfalla che per un istante si posa sul mio polso, abbracciare un amico, guardare le forme delle nuvole in cielo e fantasticare, trapiantare i gerani sul balcone, appuntarmi una frase che "suona proprio bene", la brezza tra i capelli, un gelato al limone in una giornata afosa, osservare il percorso di una chiocciola sul selciato, assaporare il profumo di una pizza fumante, ricevere una carezza in un attimo di sconforto, ridere fino alle lacrime per un attacco di ridarella incontrollata, trovare tre semafori verdi di seguito ed evitare per un soffio la coda dell'ora di punta, ricevere un complimento sincero da uno sconosciuto, osservare nel dettaglio la complessa perfezione di un fiore di passiflora, accendere la radio e l'ultimo singolo di Florence Welch sta iniziando giusto ora...

   A distanza di tempo trovare questa lista e rileggerne anche solo una parte, là dove cade l'occhio, ci permette di richiamare alla memoria le immagini, i suoni, i sapori e le sensazioni che ci avevano indotto a prendere nota di quei momenti preziosi. Questo non può che avere un effetto benefico sul nostro umore, perché si tratta di piccole cose piacevoli nascoste negli attimi che compongono la nostra vita e che hanno reso speciali le nostre giornate.
   Potrebbe essere una buona abitudine prima di andare a dormire riservare qualche momento alla lista, aggiungere giorno dopo giorno cose sempre nuove aiuta a diventare osservatori dello scorrere dell'esistenza, per imparare ad apprezzarne la bellezza, la fugacità ci certi attimi irripetibili, la caducità di quel vivere che spesso ci fa correre così veloci da farci dimenticare che c'è dell'altro, che la vita non è solo arrivare puntuali o timbrare il cartellino di entrata e uscita, essere concentrati sui nostri obiettivi e non far caso al resto, a tutto il resto, che è così tanto!
   Si tratta, in sostanza, di non focalizzarsi unicamente sulla destinazione da raggiungere ma di godere anche del viaggio stesso, perché lungo la strada di cose interessanti da vedere ce ne sono parecchie.

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martedì 31 luglio 2018

De Sprofundis approda su Ibs.it



    La raccolta di racconti brevi De sprofundis - Storie di vergogna, imbarazzo e figuracce è ora acquistabile sulla piattaforma ibs.it.
     In questa raccolta è presente anche il mio racconto dal titolo Etichette. Questo l'incipit:


Ci sono stati inverni così lunghi da farmi temere che la mia pelle non avrebbe più goduto del calore del sole.
Sin dai miei primi incerti passi nel mondo, mi ha seguita come un’ombra e non mi ha permesso di trascorrere l’infanzia spensierata e serena che spetta a ogni bambino. Quel senso di inadeguatezza che qualsiasi cosa facessi, in ogni ambito, mi dava la certezza che non sarei mai stata abbastanza: mai  abbastanza brava, abbastanza carina, abbastanza amata, mai abbastanza considerata o compresa.
Così, quando quel ragazzino con gli occhi di un azzurro talmente intenso che mi sembrava impossibile, aveva espresso il proprio interesse per me, l’ho preso per uno scherzo, uno di quei fastidiosi modi che avevano i ragazzi di mettere in imbarazzo le compagne di scuola più timide o bruttine, illudendole, prendendosi gioco di loro. Poi, qualche giorno dopo, incredula e in uno stato confusionale, ho dato il mio primo bacio. [...]

    La raccolta comprende i racconti scritti dai partecipanti ai corsi della Scuola Carver, scuola di scrittura e lettura creativa con sede a Livorno ma che abbraccia ormai gran parte della Toscana con svariati corsi fuori sede. Lo scorso anno ho partecipato ad un corso incentrato sul racconto breve avendo così la possibilità di far parte degli autori presenti in questo volume edito da Valigie Rosse.

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martedì 19 giugno 2018

Notti di luna piena

È una notte perfetta per scrivere. La luna gioca a nascondino tra le nuvole, si mostra e si ritrae, illumina in modo discreto il mio battere sulla tastiera, mi osserva e poi fugge di nuovo. C'è un bel silenzio, coccolato dal respiro placido di chi dorme. Dovrei dormire anch'io, è molto tardi, ma la luna piena ha uno strano effetto su alcune persone. Devo essere tra quelle...
Lascio che i concetti fluiscano in questa deriva creativa, rompendo gli argini della pagina, entrando senza bussare: dal cuore alle parole senza intermediari. La mente resta passiva, obbedisce agli ordini e si limita a guardare lo stratificarsi delle righe.
Mi piace la notte, è fatta di una sostanza magica, è una pausa dalla vita in cui riusciamo a lasciarci andare, senza gli ostacoli che la luce ci impone, e la creatività si libera dalle catene indotte dalla routine prosperando e riempiendo quei vuoti esistenziali che nelle giornate così piene di impegni e affanno non riusciamo mai a colmare.
Siamo solo io, lo schermo del computer e il silenzio.

Poi ti capitano quelle notti fatte di acquazzoni e tuoni che scuotono il cielo in lontananza e allora le idee fluiscono ancora più rapide, scrosciano giù come le lacrime del cielo, imbrattano con insistenza le pagine; a volte veicolando concetti slegati tra loro, a volte sembra di svuotare la soffitta delle emozioni e dare aria a pensieri a lungo trattenuti, quel genere di pensieri tenuti lì, a ricoprirsi di polvere, nel limbo delle cose sospese.
E allora i personaggi si parlano uno sull'altro, gridano, si arrabbiano, s'infuriano come il temporale oltre i vetri della finestra e corrono ad accapigliarsi. Provano emozioni più forti, più reali, più intense e la storia prende una forma del tutto nuova, inaspettata, virando in direzioni che mai avevi preso in considerazione. E le dita faticano a stare dietro alla quantità di battute sui tasti, s'incespicano, perdendosi tra una virgola e una e accentata.
Ma il senso di soddisfazione, di pienezza che ti cresce dentro è tanto immenso che tempo e spazio si dilatano portandosi dietro ogni cosa, trascinandoti in quel non-luogo fatto a tua misura, e lasci che tutto fluisca senza avere il coraggio di fermare quel processo creativo. Poi, quando concedi uno sguardo all'orologio, ti rendi conto di quanto tempo sia trascorso, e in un attimo torni nella dimensione terrestre: torni a percepire il tuo corpo, il caldo e il freddo. Il temporale si è allontanato lasciandosi dietro gli ultimi echi di una rivoluzione che ti ha portato così lontano che il giorno dopo, rileggendo ciò che hai scritto, faticherai a credere di esserne tu l'autore. E ti sembrerà che senza una traccia fisica di quell'esperienza, si sia trattato solo di un sogno.

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domenica 3 giugno 2018

Da Le spose sepolte alle Storie dissepolte


Destino

"Era una calda mattina di fine luglio, il sole sorto da poco accompagnava la Circassa nel suo giro di raccolta delle erbe spontanee con le quali avrebbe elaborato alcuni dei suoi preparati erboristici: gli sgargianti fiori arancioni di calendula per l’oleolito e gli unguenti e la cicoria selvatica dai fiori celesti con le cui radici avrebbe preparato il suo famoso amaro detossinante e digestivo, prodotto molto apprezzato dagli abitanti di Monterocca.
Stava salendo lungo un sentiero per raggiungere una piccola radura ricca di calendule, quando un rumore sordo riempì la vallata.
Uno sparo."





Questo è l'incipit del racconto giallo/noir che ho scritto prendendo ispirazione dal romanzo Le spose sepolte di Marilù Oliva e che fa parte della raccolta di racconti brevi Storie dissepolte con l'uscita del quale si è conclusa l'edizione 2018 del Laboratorio Parole Guardate. Il laboratorio di scrittura creativa che si svolge a Peccioli (Pi) e che frequento sin dalla prima edizione, è condotto con entusiasmo e preparazione da Andrea Marchetti ed ha avuto, nelle precedenti edizioni, come protagonisti Maurizio De Giovanni e Romano De Marco.
Nel variegato gruppo di persone che in questi tre anni hanno partecipato agli incontri del lunedì sera presso la Mediateca comunale, ho potuto trovare una fonte di idee, scambi di opinioni, critiche costruttive e nuovi amici. Uno stimolo continuo a migliorarmi, a superare certi limiti mentali rispetto alla mia scrittura, a esplorare nuovi orizzonti e uscire dai confini sicuri in cui mi muovo di solito.
Chissà che prima o poi non provi ad addentrarmi nella complessità della narrativa a sfondo giallo, cimentandomi magari in un romanzo breve, anche solo per mettere in pratica consigli e insegnamenti ricevuti nel tempo. Staremo a vedere dove prossimamente mi condurrà l'ispirazione. Per ora mi accontento di leggere i bei racconti dei miei compagni di avventura riuniti nella piccola e preziosa pubblicazione "Storie dissepolte".


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lunedì 21 maggio 2018

"Illusioni", un mio racconto giallo ambientato tra le colline della provincia di Pisa


ILLUSIONI

Si sentiva leggero, come se il corpo avesse perso densità. La mente galleggiava in una nebbia alabastrina. Rannicchiato, con le mani al petto, piegò la testa di lato: percepiva a malapena i fili d’erba umidi di rugiada solleticargli la guancia. Un odore di rame gli riempiva le narici. Aprì e richiuse gli occhi più volte. Un mazzo di narcisi selvatici fu l’immagine sfuocata che fotografò prima che le sue palpebre si chiudessero su quel mondo per l’ultima volta.

Sembra che il momento più buio della notte sia quello che precede l’alba, ma per il piccolo borgo di Ghizzano, il momento più buio sarebbe arrivato con il sole già alto nel cielo terso di quella mattina di fine marzo.
Erano da poco passate le otto quando Maia oltrepassò il cancello del vivaio “Il germoglio”, si addentrò tra siepi e cipressi, sull’acciottolato che costeggiava le aiuole all’entrata. La notte appena trascorsa aveva depositato un manto di goccioline che ora brillavano impreziosendo ogni filo d’erba come tanti piccoli Swarovski.
L’aria era fresca, l’inverno aveva finalmente lasciato il passo al tempo dei fiori e dei profumi; percepiva un cambiamento, ma era qualcosa che andava oltre il semplice mutare della stagione, era un sentimento di fiducia che sentiva crescerle dentro: ogni cosa avrebbe trovato la propria collocazione. Eppure, c’era quella massa scura che le riempiva il petto, un peso che con lo stratificarsi delle stagioni si era fatto presenza ingombrante e niente sembrava in grado di cancellarne l’esistenza.
Ripensò allo sguardo di Luca quando se n’era andato, la sera prima. C’era oscurità nei suoi occhi verdi, era tormentato. Gli altri forse non l’avevano notato, ma per tutta la durata della riunione in parrocchia lei aveva sentito il suo sguardo pesante addosso, aveva provato imbarazzo e partecipato ben poco alla discussione, scribacchiando appunti confusi riguardo le cose da fare per la festa dei giovani che stavano organizzando; in realtà non ricordava quasi nulla di ciò che era stato detto.
Zeno l’aspettava vicino agli orti, alzò una mano guatata salutandola, nell’altra stringeva una cesoia per la potatura delle siepi di alloro. Avrebbero tolto le coperture invernali alle ultime piantine di agrumi e lavorato ai semenzai custoditi nelle vasche col coperchio di vetro.
«Io finisco al frutteto, vai avanti tu qui?» le chiese quando gli fu vicino.
«Sì» rispose distratta Maia.
«Hai visto Luca stamattina?» domandò con tono incerto.
«No. Perché?»
«Mah…» Si grattò i capelli radi e brizzolati con movimenti meccanici: sembrava che dal giorno precedente fosse invecchiato. «Era strano ieri sera.»
A Maia non sfuggì l’ombra nello sguardo dell’uomo, anche se si eclissò dietro un sorriso sornione. Lo conosceva da sempre, era il padre di Flavia, una delle sue migliori amiche, e da poco più di un anno suo collega di lavoro al vivaio. Lo vide sparire nel frutteto mentre lei andò alla rimessa dove venivano riposti utensili, sacchi di terriccio, sementi e fertilizzanti biodinamici.
La ragazza cercò di concentrarsi sul lavoro desiderando che il tormento di cui era vittima le scivolasse alle spalle per qualche ora almeno. Aveva detto basta, ci era riuscita, dopo tanti anni in cui era stata in balia di Luca, che dettava regole e condizioni, era lei adesso ad avere in mano la situazione. Era stanca di restarsene buona in un angolo: ora si sentiva libera e avrebbe potuto fingere di essere una qualsiasi vent’enne di provincia con una vita normale, ordinaria. Questo, seppure fosse ben consapevole che in un piccolo paese un taglio netto con il passato non era verosimile, soprattutto quando il passato in questione viveva a poche case di distanza dalla tua. Prese un lungo respiro e la brezza si fece strada dentro di lei regalandole un senso di potenza e perfezione che da tempo non provava.

Alfio parcheggiò la Panda nello spiazzo davanti al casale in stato di abbandono che spesso faceva da base alle battute di caccia, aprì il baule e liberò i due cani impazienti di rincorrersi e giocare tra loro. Si accese una sigaretta e aspirò con soddisfazione osservando i due animali: un bracco e un pointer che lo accompagnavano nella caccia al tartufo. Dietro di loro il panorama digradava verso valle e oltre le colline in lontananza. Si passò una mano sulla barba ormai del tutto bianca che gli toccava il petto, «Bea! Nemo!» li chiamò, «andiamo.» S’incamminò sul sentiero che alla destra del casale si fondeva con la vegetazione: i cani lo precedevano. Solo un giretto e sarebbe tornato al suo lavoro in falegnameria.
Dopo aver raggiunto il torrente che scorreva più in basso, Alfio richiamò i cani per risalire dalla parte opposta e tornare all’auto. Si poteva già intravvedere il muro sud dell’abitazione quando Bea e Nemo fiutarono una scia che sembrò stuzzicare il loro interesse e manifestarono una certa frenesia allontanandosi di qualche passo dal sentiero. L’uomo risalì la scarpata per raggiungerli: si avvicinavano e si ritraevano come in un balletto da ciò che a prima vista sembrava un ammasso di vestiti abbandonati. Si accostò per vedere meglio, «Bea, Nemo, venite via» gridò guardando l’orologio: doveva rientrare. «Incivili! Buttare la spazzatura nei boschi. Che schifo.» Ma passando accanto a quel mucchio informe si accorse che dentro i vestiti c’era il corpo rannicchiato di un uomo e che c’era del sangue scuro, molto sangue, che aveva già attirato mosche e moscerini.
«Oh Dio» sussurrò incapace di gridare come avrebbe voluto. Si portò una mano tremante alla bocca per soffocare un conato. L’istinto lo guidò a tastare il polso dello sconosciuto trattenendo il respiro nella speranza di percepire un battito.
Quell’uomo seminascosto tra l’erba era morto.
Si chinò per vedere chi fosse e un grido squarciò il silenzio del bosco percorrendo i pochi chilometri che lo separavano dal paese. Alfio non avrebbe saputo dire se quel grido fosse scaturito dalla propria gola o da quella di qualcun altro.
Indietreggiò disorientato, sbilanciandosi. Quasi cadde all’indietro. Aggrappandosi al tronco di una quercia ritrovò l’equilibrio e la forza per estrarre il cellulare dalla tasca e chiamare il 112.
«…nel bosco sotto Ghizzano... è don Luca… è morto!»
E poi, tutto fu confuso: la corsa per tornare alla macchina dove attese per un tempo che gli sembrò interminabile, l’arrivo dei carabinieri, l’ambulanza, la telefonata confusa fatta alla moglie, il rumore sordo delle sirene e ancora, le domande, la paura, lo shock.
Don Luca, rispettato sacerdote del paese, cinquant’anni da poco compiuti, amato e rispettato da tutti. Don Luca che aveva preso i voti nonostante i successi scolastici e quell’aspetto da divo del cinema, “bello e dannato”. Don Luca che rideva delle battute dei giovani: una chitarra, un falò e perché no qualche goccio di vino, “ma non ditelo ai vostri genitori”, diceva. Don Luca che giaceva su una tomba d’erba fuori paese, brutalmente assassinato.
Secondo l’autopsia erano state otto le coltellate che l’avevano condotto all’oblio. Ma l’arma del delitto, di cui non era stata trovata traccia, non era un coltello: i bordi frastagliati delle ferite e la larghezza dell’incisione avevano portato gli inquirenti a dedurre che si trattasse di un paio di grosse forbici o, con molta probabilità, un paio di cesoie da siepe.
Chi le avesse impugnate e perché, sarebbe rimasto un mistero.


“Chiunque abbia ucciso Luca, ha rimesso le cose a posto”, pensò Maia un mese più tardi.
Forse era l’unico modo per farlo smettere.
Non l’avrebbe più infastidita, non avrebbe più infastidito nessun’altra. Erano libere.
Una fitta al ventre la fece tornare ferocemente con i piedi per terra: anche se lui non era più in grado di tormentarla, c’era qualcosa che gliel’avrebbe ricordato per i giorni e gli anni a venire. Paure che sembravano sopite tornarono prepotenti a farsi strada nella sua mente: era troppo tardi per prendere provvedimenti. Era costretta a seguire la deriva della propria esistenza, arrendersi alla corrente, sperando di non venirne travolta.


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mercoledì 11 aprile 2018

Tra la neve.


Tra la neve.

Il ticchettio insistente della pendola in salotto, quello scandire un tempo che sembrava inutile, la rendeva inquieta.
Liza uscì dalla cucina gettandosi la sciarpa al collo, le chiavi dell’auto in una mano, la borsa e il cappotto nell’altra. Chiamò l’ascensore e mentre questo raggiungeva il suo piano, chiuse la porta pregando che la signora Pieri non apparisse proprio in quel momento sul pianerottolo in cerca di gustosi pettegolezzi riguardo il trambusto della sera prima; una tazza aveva incontrato il pavimento di gres, grida e porte sbattute avevano animato la quiete notturna della palazzina.
Raggiunse la piccola utilitaria parcheggiata sotto casa e mise in moto, diretta in nessun luogo.
Il sentiero, che dalla strada percorribile in auto conduceva a quello pedonale e poi allo spiazzo di fronte al rifugio, era deserto. La neve caduta la notte precedente aveva coperto ogni traccia di presenza umana e il panorama era bucolico. Non era la prima volta che mettendosi alla guida con la testa affollata di pensieri era finita per inerpicarsi sui tornanti che conducevano a quella valle nascosta dove, avvolto nel morbido abbraccio dei boschi di conifere, custodito come un prezioso diamante, si trovava un piccolo lago. Attraversata la radura che ospitava panchine e tavoli per i picnic estivi si addentrò nel folto della boscaglia che cingeva lo specchio d’acqua; ogni passo lasciava un’effimera traccia. Voleva raggiungere il suo angolo, quello in cui amava sedersi all’ombra di una betulla per svuotare la mente scappando dalla sua prigione personale, trovando una temporanea e illusoria pace tra le eriche in fiore e il profumo della resina fresca che affiorava dai tronchi di larici e abeti.
Ripensò ai suoi sogni di bambina, quando si immaginava in un mondo di fiaba, dove la natura era protagonista e le persone avevano nomi di piante e fiori. Un mondo perfetto in cui avrebbe vissuto in una piccola casa in piena campagna, avrebbe curato un orto e raccolto fiori e piante selvatiche per farne infusi e profumi. E avrebbe cresciuto dei bambini, quattro o cinque, disegnando e confezionando i loro abiti. Un sorriso amaro le fiorì sulle labbra: niente era andato come sognava. Niente figli, niente vita sociale, non le era permesso lavorare.
Un frusciare tra le fronde la mise in allarme. Si scostò la lunga ciocca di capelli neri che d’abitudine portava su parte del viso per nascondere la perdita di autocontrollo del marito. Si voltò di scatto: un’ondata di panico l’avvolse. Cercò con lo sguardo un movimento, una figura umana, un particolare alieno in quella candida perfezione, ma non c’era nulla di anomalo in ciò che la circondava. Era sicura che la sua fosse l’unica auto nel parcheggio e non aveva notato altre tracce sul sentiero, eppure aveva la sensazione di essere seguita.
Respirò a fondo, aspettando che i battiti rallentassero e proseguì studiando lo spazio tutt’attorno. Da un maestoso abete rosso un ramo appesantito s’inarcò fino a far scivolare via con uno sbuffo quello strato di neve soffice e polverosa che per un istante riempì l’aria di cristalli brillanti.
Il sentiero proseguiva in salita, arrampicandosi su un pendio a picco sul lago per poi ridiscendere fino a raggiungere la riva sud.
Un altro fruscio la fece arrestare, stavolta era più vicino ed era sicura che si trattasse di qualcuno o qualcosa alla sua sinistra. Si voltò in direzione del rumore e tra i rami di un basso abete le sembrò di scorgere uno sbuffo di vapore. Il battito del cuore le rimbombava nelle orecchie.
E se l’avesse seguita fin lassù? Se veramente fosse arrivato a pedinarla per assecondare il sospetto che si vedesse con un altro o che gli stesse mentendo a proposito di ciò che faceva per riempire le proprie giornate?
“Oh, non essere assurda!” sussurrò a se stessa.
Ma era pur vero che una parte di lei viveva nel terrore che il marito la seguisse o fosse in qualche modo in grado di conoscere ogni suo spostamento, sapesse dove parcheggiava l’auto e controllasse quanti chilometri faceva in settimana per avere la certezza che si recasse solo a fare le commissioni indispensabili e non perdesse tempo a farsi delle amiche. La prigione di parole in cui l’aveva costretta, e nella quale lei si era in qualche modo adattata a sopravvivere, non aveva muri o catene, ma era una barriera invalicabile e della quale nessuno era a conoscenza.
Dopo un tempo indefinito, in cui restò immobile con gli occhi che saettavano tra le fronde degli alberi e congetture che le riempivano la mente, un’ombra si mosse oltre il basso abete e un muso spuntò curioso annusando l’aria.
Le si fermò il cuore e trattenne il respiro. L’istinto le diceva di scappare, ma si ritrovò incapace di muoversi; sperò che non si trattasse di una lince, che seppur rara in quella zona, era stata avvistata in più occasioni anche a quelle latitudini. Quando l’animale uscì allo scoperto, la donna riprese a respirare: era solo una volpe. Una semplice volpe curiosa che le si avvicinò saggiando l’aria con piccoli scatti delle narici. Avanzò lentamente facendo dondolare il manto rossiccio e folto, alzando e abbassando il muso per seguire la scia di odori che l’avevano guidata sino a pochi passi da quella donna che si aggirava sola nella boscaglia. Il petto bianco creava un contrasto notevole con il resto del mantello dandole un’aria regale.
Le girò attorno, con passo incerto e occhio vigile, osservò e tornò sui suoi passi, ma anziché concedersi all’invisibilità del bosco, si mise a sedere sulle zampe posteriori e cominciò a lisciarsi il pelo della coda. Fece qualche pausa di tanto in tanto, senza perdere di vista la sua ospite, la quale restò immobile per paura che ad un suo movimento l’animale fuggisse. Si guardarono, scrutandosi con attenzione come due leoni che si studiano prima di un duello in cui contendersi il territorio.
“Una volpe,” pensò Liza, “che sia la mia guida?”
Esisteva una leggenda nel villaggio in cui era nata, nel cuore dei Carpazi, una storia che sua nonna le aveva raccontato più volte lavorando la lana o rammendando vestiti in compagnia delle altre anziane del villaggio. Era la storia delle guaritrici: esistite attraverso i secoli, sapienti nell’uso delle erbe e dei sortilegi, esperte nel liberare da fatture o malocchi. Donne che vivevano perlopiù isolate a stretto contatto con la natura, nascoste sulle pendici delle montagne, e che si diceva venissero guidate in sogno da spiriti animali. Ogni guaritrice aveva il proprio animale guida e la volpe, così come il lupo, era uno dei più potenti.
La volpe fece un altro giro attorno a Liza, poi emise un penetrante guaito puntandole il muso contro. Strisciò la zampa anteriore verso destra come se volesse disseppellire qualcosa nascosto sotto la neve e poi s’infilò rapida tra i cespugli.
La donna si sentì cedere le gambe. Cadde sulle ginocchia ansimando come dopo una lunga corsa. “Cosa sono diventata? Non merito di essere la marionetta di un uomo, un oggetto, un sopramobile. Sono stanca.” Si toccò il fianco dolorante e le ecchimosi sulla tempia occultate dai capelli. Scoppiò in un pianto dirotto e si avvolse in una stretta fatta delle sue stesse braccia.
Forse quella volpe era un eco delle origini, era la sua terra che la richiamava a sé, la sua gente, quelle tradizioni che le mancavano e le procuravano un nodo in gola ogni volta che ci posava sopra i propri pensieri. Sua madre al telefono le chiedeva insistente perché non fosse più tornata, perché non avesse mai portato il marito a conoscere la loro terra o se lui non fosse interessato a incontrare la famiglia. E lei si era abituata a rispondere che era un uomo tanto impegnato e non aveva tempo per viaggi o vacanze e che comunque era un tipo da mare, non adatto alle aspre montagne della loro zona. Non sapeva, sua madre, che da poco più di due anni si erano trasferiti da Livorno a una cittadina tra le alte montagne del nord e che adesso il mare più vicino era distante qualche ora di macchina. Non le aveva nemmeno mai raccontato del comportamento ossessivo del marito, dei suoi estenuanti interrogatori che, guidati da motivi futili o sospetti infondati, scaturivano senza alcun preavviso. Non le aveva mai accennato della mano pesante di lui quando si alterava, perché lei non si sforzava di capirlo o rispondeva nel modo sbagliato.


Singhiozzava ancora quando fece ritorno al parcheggio. Si asciugò le lacrime con la manica del cappotto, gli occhi arrossati circondati da un alone violaceo. Si chiuse dentro l’abitacolo, accese il motore in attesa che il riscaldamento le offrisse un po’ di conforto e si allenò in lunghi respiri profondi estraendo la trousse per ritoccare la sua maschera di fondotinta e correttore. Quanto avrebbe voluto adesso avere un’amica con cui condividere la propria disperazione, una persona degna di fiducia e con spalle pronte ad accoglierla per avvilupparla in abbracci veri.

Avrebbe potuto fare il pieno alla macchina e prendere due o tre orologi dalla preziosa collezione del marito - dovevano valere un piccolo tesoro - e avrebbe guidato e guidato, fino a raggiungere la sua Damis, il piccolo villaggio dove era sicura si sarebbe sentita a casa.
Aveva aspettato troppo, aveva concesso troppo. Voleva tornare alle montagne che l’avevano vista bambina, abbracciare i nipoti che non aveva mai conosciuto, asciugare le lacrime della sua anziana madre. Doveva concederselo un tentativo, o tanto valeva smettere di respirare.


 Tutti i diritti riservati. Vietata la copia anche parziale.

giovedì 8 marzo 2018

Vapore

Cosa può scaturire dall'osservazione di un quadro?

Osservando Donna che fa il bagno di Edgar Degas, possono nascere molte domande sulla donna rappresentata: chi sia, se sia sposata o meno, cosa faccia nella vita, se stia sorridendo godendosi il piacere di un bagno caldo o al contrario stia annegando i dispiaceri nell'acqua di quella vasca.


Donna che fa il bagno - Edgar Degas
1883
Museo d'Orsay Parigi


A me ha ispirato questo breve racconto.


So che sei lì. Sento il tuo sguardo posarsi sulle mie spalle nude. Sento i tuoi pensieri accompagnare ogni mio gesto. So che mi sei accanto. “Mai più di due metri lontano da te” usavi dire. E so che è così.
Osservo queste pareti, dove il silenzio sembra aver inghiottito ogni palpito di vita, dove il gracchiare dei corvi e il canto delle allodole non può penetrare, dove il solo suono che scioglie i miei pensieri è il mio stesso respiro che si mescola al vapore del bagno. La carta da parati, quella che avevi scelto “perché il verde dà gioia e pace allo sguardo che vi si posa”, se ne sta lì a ricordarmi i tuoi occhi.
Un’onda silenziosa di immagini si infrange contro le mie palpebre chiuse, e si scioglie nelle lacrime che usando il mento come trampolino, si tuffano nell’acqua della tinozza. Siamo noi. Ridiamo. Piangiamo. Tu mi sorreggi. Io ti abbraccio. Tu coccoli i miei sogni e io ti metto dei fiori tra i capelli. E poi c’è lui, e il buio ti inghiotte.
Non provo rancore per il tuo abbandono, non potrei mai, ti amo e così sarà per sempre. So che in realtà la tua partenza è solo fisica; so che mi accompagnerai fino a che abiterò questo corpo e camminerò in questa vita. Ma la mancanza della tua voce mi distrugge, darei qualsiasi cosa per sentire il mio nome pronunciato da quella musica che si sprigionava come luce dal tuo corpo. E quella luce si è spenta.
L’incertezza di ciò che verrà, il silenzio e la paura mi mangiano da dentro. Non posso evitarmi di risentire mille e mille altre volte ancora le parole dure di Gérard, gli sputi di odio nei nostri confronti, la gelosia malata, la meschinità delle sue azioni. L’arroganza e la possessività, quell’orgoglio ereditario che hanno guidato la sua mano pesante su di te. E il mio sentirmi inerme e inutile, incapace di alzare un pugno sino al suo viso, strappargli quella barba aristocratica e difendere te, noi, il nostro amore. Questo amore soffocato e silenzioso, invisibile allo sguardo austero del mondo, impossibile talvolta, inammissibile e sbagliato ai loro occhi, contro natura. Il nostro attaccamento, la nostra amicizia, quell’affetto che ci ha guidate l’una verso l’altra sin dall’infanzia, quello che ci ha unite in un sentimento che, sono certa, supererà le barriere del tempo e dello spazio.
Qualcosa oltre il vetro della finestra attira la mia attenzione; lascio cadere la spugna nell’acqua. Un passero becchetta dei semi sul davanzale. Sorrido perché so che quei semi li hai lasciati tu per qualche creatura che d’inverno non trova cibo. Quanto era grande il tuo cuore. Un essere speciale come te non può vivere a lungo su questa terra, ha piani più importanti da portare a termine, progetti che qui, nella semplicità dei gesti umani risultano non contemplabili. Sei diventata un angelo forse. O forse lo sei sempre stata.

Emetto un grido e stringo ancora più forte a me il lembo del telo di lino.
«Come hai fatto a entrare?» ansimo.
«Tu. Donna immonda» sussurra con voce baritonale.
Mi volto e lui è a pochi metri da me: il dito indice puntato contro il mio naso, la schiuma ai lati dalla bocca socchiusa. Stringe nell’altra mano il cappello, stropicciandone la tesa.
«Chi ti ha dato il permesso di entrare in casa mia?»
«L’hai uccisa tu. Tu l’hai spinta a buttarsi dalla scogliera.»
Lo guardo incapace di ribattere. Come si permette? Io l’amavo, il mio era amore vero, il mio cuore era tutto, irrimediabilmente suo. Cosa ne può sapere Gérard di quello che c’era tra noi?
«Cosa le hai fatto? Cosa facevate quando veniva qui?» avanza minaccioso un passo alla volta. «Mi disgusti, tu e tutte quelle come te. Abominio, ecco cosa siete.» Zampilli di saliva piovono come proiettili.
Il cuore inizia a galoppare, lo sentono le mie orecchie, lo sente anche lui. Mi legge in faccia la paura, m’inchioda alle assi del pavimento con occhi iniettati di sangue.
Un respiro e lui mi è addosso. Mi afferra per il collo, la mano dalle dita grassocce lo avvolge senza alcuna fatica, e inizia a stringere, un dito dopo l’altro. L’altra mano resta aggrappata al cappello come fosse uno scettro dal quale non vuole separarsi. Mi divincolo, affamata d’aria, con le unghie infilate nella pelle delle sue guance, cerco i suoi occhi. Devo respirare, devo levarmelo di dosso. Devo chiamare aiuto.
Dalla sua gola si sprigiona una risata che sembra provenire dalle cavità più profonde degli inferi. Inizia a farneticare, a inveire contro di me, contro di lei. Io non riesco a respirare, inizio a non capire ciò che dice. Improvvisamente sembra che la luce del tramonto abbia avvolto la stanza.

Fluttuo in una nebbia rosa. Sono avvolta da una leggerezza nuova, non avverto il peso del mio corpo, non avverto il peso della vita. Oh mia adorata, potrò finalmente rincontrarti, ora che non faccio più parte degli abitanti della terra? Sento di sorridere, una serenità ultraterrena mi culla.
I violini del paradiso, non li sento. Perché non li sento?
Un suono lontano si palesa ai miei sensi, sembra un singhiozzo sommesso. Cerco di vedere oltre la nebbia che mi circonda ma non riesco a mettere a fuoco alcunché. Poi sento freddo, un freddo glaciale. E tutto prende forma. I miei arti, le mie mani, il mio intero corpo immerso in un liquido gelato. Scopro di poter aprire gli occhi e lo sgomento nel constatare di essere ancora viva, è più grande della sorpresa di trovarmi nuda nella tinozza e di vedere che Gérard è ancora nella mia stanza. Sta seduto nella poltrona di vimini di fronte alla finestra, ha la testa tra le mani e singhiozza da chissà quanto tempo. Il tramonto si sta affacciando oltre il giardino e le prime ombre si insinuano dietro ai mobili.
Resto immobile, la gola mi duole e fatico a respirare, ma ho il timore che se mi muovessi per uscire dall’acqua lui si volterebbe e sarebbe ben presto su di me. Ha tentato di uccidermi, così come ha fatto con lei, se non sei come dice lui non devi essere null’altro.
Il buio sta per avvolgere la stanza quando si alza, sposta con uno strattone la poltroncina e esce senza curarsi di me. Crede che sia morta, forse. Mi rallegro al suono del portone chiudersi ed esco dall’acqua per correre all’armadio e vestirmi. Chiudo con il catenaccio e accendo il fuoco nel camino. So che dormire sarà impossibile stanotte. Domani all’alba andrò dal dottor Mirabelle: i lividi che ho su collo, spalle e natiche mi fanno temere cose che non voglio nemmeno immaginare. Mi aggrappo alla speranza che forse, quando gli sembrava che avessi smesso di respirare, mi abbia gettata dentro la tinozza e lì, mi sono procurata i lividi.
Oh mio dolce, piccolo tesoro, vorrei tanto addormentarmi stretta a te, cullata dalla musica della tua voce e non svegliarmi mai più, non qui, in questa casa, in questa vita, dove lui può tornare a prendermi e uccidermi di nuovo.
 “Mai più di due metri lontano da te” sembra sussurrare il vento.


Tutti i diritti riservati. Vietata la copia anche parziale.

mercoledì 21 febbraio 2018

Cechov e il finale alternativo

     Il finale aperto de La signora con il cagnolino di Anton Cechov si presta a molte conclusioni, il lettore ha la libertà di immaginare come  vada a finire la storia tra Gurov e Anna Sergèevna. I due si conoscono a Jalta, una località di villeggiatura sul Mar Nero, entrambi sposati diventano amanti: lui narcisista sciupafemmine impunito dai capelli sale e pepe, lei che dichara di non aver tradito il marito ma solo se stessa.

Cechov ci lascia così:
- Via, smetti di piangere, mia cara - diceva - hai pianto abbastanza... Ora parleremo con calma, e qualcosa ci verrà in mente.
Poi a lungo discutevano, si consigliavano, sul modo di liberarsi dalla necessità di nascondersi, di ingannare, di vivere in due città diverse, separati per lunghi periodi. Come fare a liberarsi da tali legami insopportabili?
- Come? come? - egli si chiedeva prendendosi la testa fra le mani. - Come? - E pareva che sarebbe trascorso ancora poco tempo, e si sarebbe trovata una soluzione, e sarebbe cominciata allora una vita nuova, meravigliosa; ed erano convinti tutti e due che la fine era ancora lontana lontana e che il difficile, il più complicato, era appena cominciato.


Bene, il mio personale finale alternativo è questo:

  “Si accostò a lei e la prese per le spalle, per accarezzarla, per scherzare un poco, e in quel momento si scorse nello specchio di fronte. Quando i suoi capelli avevano iniziato a coprirsi di quella leggera neve? Cosa avevano trovato in lui le donne? Cosa trovava in lui quella donna?
   Anna Sergèevna si scostò leggermente: un movimento appena percettibile sotto le mani di Gurov, il quale avvertì un brivido che lo fece sussultare. Non disse nulla, limitandosi a socchiudere gli occhi fissando lo sguardo nell'immagine che lo specchio restituiva impietoso.
    Le avrebbe chiesto di lasciare il marito, di rifugiarsi con lui in un’altra città, per sorreggersi nei giorni a venire ed essere l’uno il bastone della vecchiaia dell’altra.
    Sarebbe rincasato e una volta seduto a tavola di fronte alla moglie avrebbe lasciato che la determinazione guidasse le parole destinate a rompere la promessa suggellata dal loro matrimonio. Avrebbe messo la parola fine ad una storia priva di affetto e aperto le porte all'arioso sentimento che sentiva crescergli dentro il petto. Sorrise a se stesso, gongolando nel proprio compiacimento.
    Anna Sergèevna ebbe l’impressione che Gurov aumentasse la pressione sulle proprie spalle, come a confortarla o forse solo a farle avvertire la sua presenza, comunicandole in un linguaggio privo di parole che era sua.
     Si alzò di scatto, scostandosi da lui e prendendo le distanze dalle silenziose insinuazioni di quell’uomo che non era suo marito e che non la meritava.
Anton Pavlovich Chekhov
    - Addio. - Fu tutto ciò che disse, privandolo di spiegazioni o di un’ultima, sfuggente tenerezza. L’iniziale smarrimento che dipinse il volto di Gurov, lasciò repentinamente il posto ad una paura tanto tangibile da saturare la stanza. L’uomo si limitò a socchiudere la bocca, sbigottito e confuso, mentre lei gli scivolava tra le dita e chiudeva definitivamente la loro porta sull'avvenire.
     Gurov tornò a perdersi nel riflesso dello specchio, la gola secca iniziò a bruciare e un tremore incontrollato scaturì dallo stomaco per diffondersi in tutto il corpo. Il mondo si era ribaltato ai suoi piedi.”





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martedì 23 gennaio 2018

Precisettix: farmaco immaginario per la cura del disordine cronico.



Farmaci immaginari... (per ora).


Precisettix© – Farmaco per la cura del disordine cronico.


* Indicazioni:
In caso di disordine genetico o sciatteria cronica, utile per disturbi occasionali, quali attacchi di qualunquismo e trasandatezza, ma anche a supporto di terapie psicologiche durature.

* Composizione:
Precisettix© è composto da: 40% estratto puro di perfezionismo, 25% principio attivo di ordine, 20% essenza di saputello, 10% estratto liofilizzato di  infallibilità, eccipienti: 5% zero fronzoli, solo l’essenziale.

* Involucro e contenuto della confezione:
una confezione di Precisettix© comprende abiti eleganti e sempre in ordine, capelli impeccabili e scarpe ultima moda. Nella versione femminile in comode compresse masticabili sono compresi trucco e manicure. Nella versione maschile in capsule solide, oltre al pettinino per barba, è compresa una lente d’ingrandimento per facilitare la puntazione di tutte le “i”.

* Dosi e tempi di somministrazione:
Precisettix© va assunto nella misura di una capsula/compressa masticabile al mattino a digiuno e una la sera prima di coricarsi, per le cure ripetute a cadenza trimestrale è sufficiente una sola assunzione al mattino a digiuno.
Per la versione maschile si consiglia di favorire la deglutizione della capsula con un poco d’acqua tiepida.
L’assunzione deve essere costante e duratura sia essa prescritta per cure di pochi giorni o per periodi più lunghi. Per una corretta assunzione e una cura mirata ed individuale, si consiglia la consultazione del proprio terapeuta di fiducia.

* Sovraddosaggio:
Non superare la dose consigliata, un’assunzione eccessiva può causare disturbi psicologici più o meno gravi, attacchi di panico immotivati, allucinazione, sdoppiamento della personalità e sfociare in sintomi più gravi come la sindrome ossessivo compulsiva.

* Interazione con altri farmaci o sostanze:
Prestare molta attenzione a non assumere caffè, tè o cioccolato nel corso della cura, poiché le sostanze nervine in esso contenute possono causare stati di alterazione e portare a psicosi e manie incontrollate. L’interazione di Precisettix© con il farmaco ad esso contrario Disordinettix©, della ditta “Prendiamocela comoda farmaceutici”, causa crisi d’identità, stati d’ansia e forte intolleranza che può sfociare in collera e litigiosità.

* Effetti indesiderati:
Tra gli effetti indesiderati legati ad un’assunzione inappropriata segnaliamo: necessità di pulizie di primavera fuori stagione, voglie, anche notturne, di ordine sistematico, necessità impellente di acquisto del libro “Il magico potere del riordino” di Marie Kondo, attacchi di shopping compulsivo per mantenere adeguato il proprio abbigliamento. Nelle persone più sensibili si può verificare un eccesso di igiene personale che talvolta potrebbe disorientare familiari e colleghi di lavoro.

* Avvertenze speciali:
Nel corso di una cura con Precisettix© prestare molta attenzione a non superare la dose consigliata, poiché, come sottolineato in precedenza, un sovraddosaggio potrebbe produrre effetti difficili da gestire. In caso di fastidi gravi si consiglia l’uso di uno dei seguenti spray “Fingi di non vedere” o anche “Non ti curar di loro, guarda e passa” che aiuteranno a sopportare meglio le carenze altrui.

* Precauzioni d’uso:
Attenersi alle indicazioni mediche e al parere del proprio terapeuta. L’uso di Precisettix© è sconsigliato a soggetti con velleità artistiche poiché l’assunzione del farmaco potrebbe causare frustrazioni e blocchi del naturale flusso creativo.


Tutti i diritti riservati. Vietata la copia anche parziale.

mercoledì 17 gennaio 2018

Il dinosauro di Monterroso

Tempo fa mi è stato chiesto di elaborare una riflessione/recensione su un famoso mini racconto di  Augusto Monterroso, autore sudamericano che ci ha lasciato l'ambiguo IL DINOSAURO.

Potremmo pensare che l’autore de Il dinosauro abbia partorito il mini racconto in questione in un annoiato pomeriggio di sole cocente nella pampa sudamericana e che il prolungarlo anche solo di qualche riga gli avrebbe causato una disidratazione estrema visti i 45 gradi esterni. Ma ad un’attenta analisi scopriamo che Monterroso è riuscito a costruire un castello composto da parecchie stanze segrete, ambienti che solo il lettore attento ha il potere di aprire per scoprirne il contenuto.

“Quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì” recita il testo del racconto. Bene, la prima cosa che viene da chiedersi è quale potrebbe essere l’identità del personaggio che si sveglia: si tratta forse di un bambino che si è addormentato aggrappato al suo dinosauro di peluche e, dopo aver sognato incredibili avventure in compagnia dell’adorato giocattolo, la mattina seguente si stupisce di trovarlo ancora accanto a lui?
O la vittima di un rapimento messo in atto da un quasi centenario, detto “il dinosauro”, che se ne sta seduto su una poltrona sfatta in fondo al materasso sudicio sul quale il malcapitato/a è stato costretto a dormire?
O non potrebbe magari trattarsi di un incipit di un romanzo distopico nel quale gli esseri umani convivono con i dinosauri? In tal caso ci si augura che l’esemplare in questione fosse un erbivoro tutto muscoli e niente cervello. Al contrario è abbastanza evidente il motivo per cui del romanzo sia rimasto solo l’incipit: il dinosauro carnivoro fa un sol boccone del poveretto e la storia finisce lì.
Magari un fantasy, nel quale l’eroina di turno, svenuta per un combattimento estenuante contro un essere demoniaco a forma di dinosauro, si ridesta e con delusione scopre di essere ancora tra le grinfie del mostro. Riuscirà ad uscirne viva? Se è un fantasy è probabile che faccia uso della magia e si salvi all’ultimo secondo, appena prima della pagina dei ringraziamenti.
O ancora, il finale di una storia tragica e incredibile, il cui protagonista vive avventure da film holliwodiano e alla fine scopre che è stato tutto un sogno e che il piccolo tirannosaurus rex telecomandato con cui da bambino ha trascorso ore liete è ancora lì, sulla mensola tra letto e scrivania, a osservarlo con tanto di denti aguzzi e occhi strabuzzati.

Ma Monterroso ha voluto scrivere un mini racconto di proposito, così ci viene tramandato, dunque quale motivazione potrebbe averlo spinto a condensare in sole otto parole un concetto o una storia? Per la verità ci aveva già pensato il caro Ungaretti con la sua Mattina (chi non si ricorda la parafrasi de “M’illumino d’immenso” fatta alle medie?), è vero, quella era una poesia e questo un racconto, ma bisogna dire che la capacità di sintesi era una dote di entrambi. Il dinosauro potrebbe rappresentare un vecchio sistema, un dogma ormai datato che stenta a farsi seppellire là dove sarebbe giusto finisse, sotto polvere stratificata, nascosto alla vista per tornare alla luce millenni dopo, riemergendo con il solo scopo di stupire i presenti facendoli esclamare: che barbari a quei tempi, meno male siamo nati in un’altra epoca!
Potrebbe trattarsi di un pensiero oscuro, la preoccupazione di un ragazzino che nella solitudine della propria stanza, e senza il sostegno di genitori assenti e asettici, combatte contro le sue paure, vere o infondate, di mostri e predatori che agiscono alla luce del giorno. Lui si sveglia illudendosi che si sia trattato di un brutto sogno, ma ciò che teme è ancora lì, minaccioso e ingombrante.
Ma il dinosauro potrebbe anche essere la rappresentazione di una depressione, una condizione mentale che affligge colui o colei che si sveglia e che con amarezza scopre che esauritasi la coltre fumosa creata dagli psicofarmaci, il malessere che sente dentro, quell’ombra minacciosa è lì ad aspettarlo/a. Ancora.

Mi accorgo di aver pensato solo a scenari negativi e di non aver dato spazio a situazioni ordinarie, semplici. Potrebbe per esempio trattarsi di un bambino che sognando di perdere il suo peluche preferito a forma di dinosauro, si sveglia in preda all’agitazione e lo cerca con lo sguardo per poi trovare il suo amico là dove è sempre stato. Lieto fine. Almeno uno.

Avendo resistito alla tentazione di spulciare il web per prendere spunto dalle teorie di altri critici sul reale significato de Il dinosauro, non so se l’autore abbia mai rivelato il significato di questo mini racconto né se abbia spiegato da quali pensieri sia scaturito guidandolo nella scelta di parole e punteggiatura. Quindi può darsi che le mie speculazioni siano surreali e totalmente fuori strada, chiedo pertanto perdono alla memoria dell’autore.

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