Tra
la neve.
Il ticchettio
insistente della pendola in salotto, quello scandire un tempo che sembrava inutile,
la rendeva inquieta.
Liza uscì dalla cucina gettandosi
la sciarpa al collo, le chiavi dell’auto in una mano, la borsa e il cappotto
nell’altra. Chiamò l’ascensore e mentre questo raggiungeva il suo piano, chiuse
la porta pregando che la signora Pieri non apparisse proprio in quel momento
sul pianerottolo in cerca di gustosi pettegolezzi riguardo il trambusto della
sera prima; una tazza aveva incontrato il pavimento di gres, grida e porte
sbattute avevano animato la quiete notturna della palazzina.
Raggiunse la piccola
utilitaria parcheggiata sotto casa e mise in moto, diretta in nessun luogo.
Il sentiero, che dalla
strada percorribile in auto conduceva a quello pedonale e poi allo spiazzo di
fronte al rifugio, era deserto. La neve caduta la notte precedente aveva
coperto ogni traccia di presenza umana e il panorama era bucolico. Non era la
prima volta che mettendosi alla guida con la testa affollata di pensieri era
finita per inerpicarsi sui tornanti che conducevano a quella valle nascosta dove,
avvolto nel morbido abbraccio dei boschi di conifere, custodito come un
prezioso diamante, si trovava un piccolo lago. Attraversata la radura che
ospitava panchine e tavoli per i picnic estivi si addentrò nel folto della
boscaglia che cingeva lo specchio d’acqua; ogni passo lasciava un’effimera
traccia. Voleva raggiungere il suo angolo, quello in cui amava sedersi
all’ombra di una betulla per svuotare la mente scappando dalla sua prigione
personale, trovando una temporanea e illusoria pace tra le eriche in fiore e il
profumo della resina fresca che affiorava dai tronchi di larici e abeti.
Ripensò ai suoi sogni
di bambina, quando si immaginava in un mondo di fiaba, dove la natura era
protagonista e le persone avevano nomi di piante e fiori. Un mondo perfetto in
cui avrebbe vissuto in una piccola casa in piena campagna, avrebbe curato un
orto e raccolto fiori e piante selvatiche per farne infusi e profumi. E avrebbe
cresciuto dei bambini, quattro o cinque, disegnando e confezionando i loro
abiti. Un sorriso amaro le fiorì sulle labbra: niente era andato come sognava.
Niente figli, niente vita sociale, non le era permesso lavorare.
Un frusciare tra le
fronde la mise in allarme. Si scostò la lunga ciocca di capelli neri che
d’abitudine portava su parte del viso per nascondere la perdita di
autocontrollo del marito. Si voltò di scatto: un’ondata di panico l’avvolse. Cercò
con lo sguardo un movimento, una figura umana, un particolare alieno in quella
candida perfezione, ma non c’era nulla di anomalo in ciò che la circondava. Era
sicura che la sua fosse l’unica auto nel parcheggio e non aveva notato altre
tracce sul sentiero, eppure aveva la sensazione di essere seguita.
Respirò a fondo,
aspettando che i battiti rallentassero e proseguì studiando lo spazio tutt’attorno.
Da un maestoso abete rosso un ramo appesantito s’inarcò fino a far scivolare
via con uno sbuffo quello strato di neve soffice e polverosa che per un istante
riempì l’aria di cristalli brillanti.
Il sentiero proseguiva
in salita, arrampicandosi su un pendio a picco sul lago per poi ridiscendere
fino a raggiungere la riva sud.
Un altro fruscio la
fece arrestare, stavolta era più vicino ed era sicura che si trattasse di
qualcuno o qualcosa alla sua sinistra. Si voltò in direzione del rumore e tra i
rami di un basso abete le sembrò di scorgere uno sbuffo di vapore. Il battito
del cuore le rimbombava nelle orecchie.
E se l’avesse seguita
fin lassù? Se veramente fosse arrivato a pedinarla per assecondare il sospetto
che si vedesse con un altro o che gli stesse mentendo a proposito di ciò che
faceva per riempire le proprie giornate?
“Oh, non essere assurda!”
sussurrò a se stessa.
Ma era pur vero che una
parte di lei viveva nel terrore che il marito la seguisse o fosse in qualche
modo in grado di conoscere ogni suo spostamento, sapesse dove parcheggiava
l’auto e controllasse quanti chilometri faceva in settimana per avere la
certezza che si recasse solo a fare le commissioni indispensabili e non
perdesse tempo a farsi delle amiche. La prigione di parole in cui l’aveva
costretta, e nella quale lei si era in qualche modo adattata a sopravvivere, non
aveva muri o catene, ma era una barriera invalicabile e della quale nessuno era
a conoscenza.
Dopo un tempo
indefinito, in cui restò immobile con gli occhi che saettavano tra le fronde
degli alberi e congetture che le riempivano la mente, un’ombra si mosse oltre il
basso abete e un muso spuntò curioso annusando l’aria.
Le si fermò il cuore e
trattenne il respiro. L’istinto le diceva di scappare, ma si ritrovò incapace
di muoversi; sperò che non si trattasse di una lince, che seppur rara in quella
zona, era stata avvistata in più occasioni anche a quelle latitudini. Quando
l’animale uscì allo scoperto, la donna riprese a respirare: era solo una volpe.
Una semplice volpe curiosa che le si avvicinò saggiando l’aria con piccoli
scatti delle narici. Avanzò lentamente facendo dondolare il manto rossiccio e
folto, alzando e abbassando il muso per seguire la scia di odori che l’avevano
guidata sino a pochi passi da quella donna che si aggirava sola nella
boscaglia. Il petto bianco creava un contrasto notevole con il resto del
mantello dandole un’aria regale.
Le girò attorno, con
passo incerto e occhio vigile, osservò e tornò sui suoi passi, ma anziché concedersi
all’invisibilità del bosco, si mise a sedere sulle zampe posteriori e cominciò
a lisciarsi il pelo della coda. Fece qualche pausa di tanto in tanto, senza
perdere di vista la sua ospite, la quale restò immobile per paura che ad un suo
movimento l’animale fuggisse. Si guardarono, scrutandosi con attenzione come
due leoni che si studiano prima di un duello in cui contendersi il territorio.
“Una volpe,” pensò Liza,
“che sia la mia guida?”
Esisteva una leggenda
nel villaggio in cui era nata, nel cuore dei Carpazi, una storia che sua nonna
le aveva raccontato più volte lavorando la lana o rammendando vestiti in
compagnia delle altre anziane del villaggio. Era la storia delle guaritrici:
esistite attraverso i secoli, sapienti nell’uso delle erbe e dei sortilegi,
esperte nel liberare da fatture o malocchi. Donne che vivevano perlopiù isolate
a stretto contatto con la natura, nascoste sulle pendici delle montagne, e che
si diceva venissero guidate in sogno da spiriti animali. Ogni guaritrice aveva
il proprio animale guida e la volpe, così come il lupo, era uno dei più potenti.
La volpe fece un altro
giro attorno a Liza, poi emise un penetrante guaito puntandole il muso contro.
Strisciò la zampa anteriore verso destra come se volesse disseppellire qualcosa
nascosto sotto la neve e poi s’infilò rapida tra i cespugli.
La donna si sentì
cedere le gambe. Cadde sulle ginocchia ansimando come dopo una lunga corsa.
“Cosa sono diventata? Non merito di essere la marionetta di un uomo, un
oggetto, un sopramobile. Sono stanca.” Si toccò il fianco dolorante e le
ecchimosi sulla tempia occultate dai capelli. Scoppiò in un pianto dirotto e si
avvolse in una stretta fatta delle sue stesse braccia.
Forse quella volpe era
un eco delle origini, era la sua terra che la richiamava a sé, la sua gente, quelle
tradizioni che le mancavano e le procuravano un nodo in gola ogni volta che ci
posava sopra i propri pensieri. Sua madre al telefono le chiedeva insistente perché
non fosse più tornata, perché non avesse mai portato il marito a conoscere la
loro terra o se lui non fosse interessato a incontrare la famiglia. E lei si
era abituata a rispondere che era un uomo tanto impegnato e non aveva tempo per
viaggi o vacanze e che comunque era un tipo da mare, non adatto alle aspre
montagne della loro zona. Non sapeva, sua madre, che da poco più di due anni si
erano trasferiti da Livorno a una cittadina tra le alte montagne del nord e che
adesso il mare più vicino era distante qualche ora di macchina. Non le aveva
nemmeno mai raccontato del comportamento ossessivo del marito, dei suoi
estenuanti interrogatori che, guidati da motivi futili o sospetti infondati, scaturivano
senza alcun preavviso. Non le aveva mai accennato della mano pesante di lui
quando si alterava, perché lei non si sforzava di capirlo o rispondeva nel modo
sbagliato.
Singhiozzava ancora
quando fece ritorno al parcheggio. Si asciugò le lacrime con la manica del
cappotto, gli occhi arrossati circondati da un alone violaceo. Si chiuse dentro
l’abitacolo, accese il motore in attesa che il riscaldamento le offrisse un po’
di conforto e si allenò in lunghi respiri profondi estraendo la trousse per ritoccare
la sua maschera di fondotinta e correttore. Quanto avrebbe voluto adesso avere
un’amica con cui condividere la propria disperazione, una persona degna di
fiducia e con spalle pronte ad accoglierla per avvilupparla in abbracci veri.
Avrebbe potuto fare il
pieno alla macchina e prendere due o tre orologi dalla preziosa collezione del
marito - dovevano valere un piccolo tesoro - e avrebbe guidato e guidato, fino
a raggiungere la sua Damis, il piccolo villaggio dove era sicura si sarebbe sentita
a casa.
Aveva
aspettato troppo, aveva concesso troppo. Voleva tornare alle montagne che
l’avevano vista bambina, abbracciare i nipoti che non aveva mai conosciuto,
asciugare le lacrime della sua anziana madre. Doveva concederselo un tentativo,
o tanto valeva smettere di respirare.
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