mercoledì 11 aprile 2018

Tra la neve.


Tra la neve.

Il ticchettio insistente della pendola in salotto, quello scandire un tempo che sembrava inutile, la rendeva inquieta.
Liza uscì dalla cucina gettandosi la sciarpa al collo, le chiavi dell’auto in una mano, la borsa e il cappotto nell’altra. Chiamò l’ascensore e mentre questo raggiungeva il suo piano, chiuse la porta pregando che la signora Pieri non apparisse proprio in quel momento sul pianerottolo in cerca di gustosi pettegolezzi riguardo il trambusto della sera prima; una tazza aveva incontrato il pavimento di gres, grida e porte sbattute avevano animato la quiete notturna della palazzina.
Raggiunse la piccola utilitaria parcheggiata sotto casa e mise in moto, diretta in nessun luogo.
Il sentiero, che dalla strada percorribile in auto conduceva a quello pedonale e poi allo spiazzo di fronte al rifugio, era deserto. La neve caduta la notte precedente aveva coperto ogni traccia di presenza umana e il panorama era bucolico. Non era la prima volta che mettendosi alla guida con la testa affollata di pensieri era finita per inerpicarsi sui tornanti che conducevano a quella valle nascosta dove, avvolto nel morbido abbraccio dei boschi di conifere, custodito come un prezioso diamante, si trovava un piccolo lago. Attraversata la radura che ospitava panchine e tavoli per i picnic estivi si addentrò nel folto della boscaglia che cingeva lo specchio d’acqua; ogni passo lasciava un’effimera traccia. Voleva raggiungere il suo angolo, quello in cui amava sedersi all’ombra di una betulla per svuotare la mente scappando dalla sua prigione personale, trovando una temporanea e illusoria pace tra le eriche in fiore e il profumo della resina fresca che affiorava dai tronchi di larici e abeti.
Ripensò ai suoi sogni di bambina, quando si immaginava in un mondo di fiaba, dove la natura era protagonista e le persone avevano nomi di piante e fiori. Un mondo perfetto in cui avrebbe vissuto in una piccola casa in piena campagna, avrebbe curato un orto e raccolto fiori e piante selvatiche per farne infusi e profumi. E avrebbe cresciuto dei bambini, quattro o cinque, disegnando e confezionando i loro abiti. Un sorriso amaro le fiorì sulle labbra: niente era andato come sognava. Niente figli, niente vita sociale, non le era permesso lavorare.
Un frusciare tra le fronde la mise in allarme. Si scostò la lunga ciocca di capelli neri che d’abitudine portava su parte del viso per nascondere la perdita di autocontrollo del marito. Si voltò di scatto: un’ondata di panico l’avvolse. Cercò con lo sguardo un movimento, una figura umana, un particolare alieno in quella candida perfezione, ma non c’era nulla di anomalo in ciò che la circondava. Era sicura che la sua fosse l’unica auto nel parcheggio e non aveva notato altre tracce sul sentiero, eppure aveva la sensazione di essere seguita.
Respirò a fondo, aspettando che i battiti rallentassero e proseguì studiando lo spazio tutt’attorno. Da un maestoso abete rosso un ramo appesantito s’inarcò fino a far scivolare via con uno sbuffo quello strato di neve soffice e polverosa che per un istante riempì l’aria di cristalli brillanti.
Il sentiero proseguiva in salita, arrampicandosi su un pendio a picco sul lago per poi ridiscendere fino a raggiungere la riva sud.
Un altro fruscio la fece arrestare, stavolta era più vicino ed era sicura che si trattasse di qualcuno o qualcosa alla sua sinistra. Si voltò in direzione del rumore e tra i rami di un basso abete le sembrò di scorgere uno sbuffo di vapore. Il battito del cuore le rimbombava nelle orecchie.
E se l’avesse seguita fin lassù? Se veramente fosse arrivato a pedinarla per assecondare il sospetto che si vedesse con un altro o che gli stesse mentendo a proposito di ciò che faceva per riempire le proprie giornate?
“Oh, non essere assurda!” sussurrò a se stessa.
Ma era pur vero che una parte di lei viveva nel terrore che il marito la seguisse o fosse in qualche modo in grado di conoscere ogni suo spostamento, sapesse dove parcheggiava l’auto e controllasse quanti chilometri faceva in settimana per avere la certezza che si recasse solo a fare le commissioni indispensabili e non perdesse tempo a farsi delle amiche. La prigione di parole in cui l’aveva costretta, e nella quale lei si era in qualche modo adattata a sopravvivere, non aveva muri o catene, ma era una barriera invalicabile e della quale nessuno era a conoscenza.
Dopo un tempo indefinito, in cui restò immobile con gli occhi che saettavano tra le fronde degli alberi e congetture che le riempivano la mente, un’ombra si mosse oltre il basso abete e un muso spuntò curioso annusando l’aria.
Le si fermò il cuore e trattenne il respiro. L’istinto le diceva di scappare, ma si ritrovò incapace di muoversi; sperò che non si trattasse di una lince, che seppur rara in quella zona, era stata avvistata in più occasioni anche a quelle latitudini. Quando l’animale uscì allo scoperto, la donna riprese a respirare: era solo una volpe. Una semplice volpe curiosa che le si avvicinò saggiando l’aria con piccoli scatti delle narici. Avanzò lentamente facendo dondolare il manto rossiccio e folto, alzando e abbassando il muso per seguire la scia di odori che l’avevano guidata sino a pochi passi da quella donna che si aggirava sola nella boscaglia. Il petto bianco creava un contrasto notevole con il resto del mantello dandole un’aria regale.
Le girò attorno, con passo incerto e occhio vigile, osservò e tornò sui suoi passi, ma anziché concedersi all’invisibilità del bosco, si mise a sedere sulle zampe posteriori e cominciò a lisciarsi il pelo della coda. Fece qualche pausa di tanto in tanto, senza perdere di vista la sua ospite, la quale restò immobile per paura che ad un suo movimento l’animale fuggisse. Si guardarono, scrutandosi con attenzione come due leoni che si studiano prima di un duello in cui contendersi il territorio.
“Una volpe,” pensò Liza, “che sia la mia guida?”
Esisteva una leggenda nel villaggio in cui era nata, nel cuore dei Carpazi, una storia che sua nonna le aveva raccontato più volte lavorando la lana o rammendando vestiti in compagnia delle altre anziane del villaggio. Era la storia delle guaritrici: esistite attraverso i secoli, sapienti nell’uso delle erbe e dei sortilegi, esperte nel liberare da fatture o malocchi. Donne che vivevano perlopiù isolate a stretto contatto con la natura, nascoste sulle pendici delle montagne, e che si diceva venissero guidate in sogno da spiriti animali. Ogni guaritrice aveva il proprio animale guida e la volpe, così come il lupo, era uno dei più potenti.
La volpe fece un altro giro attorno a Liza, poi emise un penetrante guaito puntandole il muso contro. Strisciò la zampa anteriore verso destra come se volesse disseppellire qualcosa nascosto sotto la neve e poi s’infilò rapida tra i cespugli.
La donna si sentì cedere le gambe. Cadde sulle ginocchia ansimando come dopo una lunga corsa. “Cosa sono diventata? Non merito di essere la marionetta di un uomo, un oggetto, un sopramobile. Sono stanca.” Si toccò il fianco dolorante e le ecchimosi sulla tempia occultate dai capelli. Scoppiò in un pianto dirotto e si avvolse in una stretta fatta delle sue stesse braccia.
Forse quella volpe era un eco delle origini, era la sua terra che la richiamava a sé, la sua gente, quelle tradizioni che le mancavano e le procuravano un nodo in gola ogni volta che ci posava sopra i propri pensieri. Sua madre al telefono le chiedeva insistente perché non fosse più tornata, perché non avesse mai portato il marito a conoscere la loro terra o se lui non fosse interessato a incontrare la famiglia. E lei si era abituata a rispondere che era un uomo tanto impegnato e non aveva tempo per viaggi o vacanze e che comunque era un tipo da mare, non adatto alle aspre montagne della loro zona. Non sapeva, sua madre, che da poco più di due anni si erano trasferiti da Livorno a una cittadina tra le alte montagne del nord e che adesso il mare più vicino era distante qualche ora di macchina. Non le aveva nemmeno mai raccontato del comportamento ossessivo del marito, dei suoi estenuanti interrogatori che, guidati da motivi futili o sospetti infondati, scaturivano senza alcun preavviso. Non le aveva mai accennato della mano pesante di lui quando si alterava, perché lei non si sforzava di capirlo o rispondeva nel modo sbagliato.


Singhiozzava ancora quando fece ritorno al parcheggio. Si asciugò le lacrime con la manica del cappotto, gli occhi arrossati circondati da un alone violaceo. Si chiuse dentro l’abitacolo, accese il motore in attesa che il riscaldamento le offrisse un po’ di conforto e si allenò in lunghi respiri profondi estraendo la trousse per ritoccare la sua maschera di fondotinta e correttore. Quanto avrebbe voluto adesso avere un’amica con cui condividere la propria disperazione, una persona degna di fiducia e con spalle pronte ad accoglierla per avvilupparla in abbracci veri.

Avrebbe potuto fare il pieno alla macchina e prendere due o tre orologi dalla preziosa collezione del marito - dovevano valere un piccolo tesoro - e avrebbe guidato e guidato, fino a raggiungere la sua Damis, il piccolo villaggio dove era sicura si sarebbe sentita a casa.
Aveva aspettato troppo, aveva concesso troppo. Voleva tornare alle montagne che l’avevano vista bambina, abbracciare i nipoti che non aveva mai conosciuto, asciugare le lacrime della sua anziana madre. Doveva concederselo un tentativo, o tanto valeva smettere di respirare.


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