Scrivere come piacevole passatempo o come costante esercizio mentale, scrivere perché se ne sente il bisogno o perché si ha qualcosa da dire. Si può scrivere per tanti motivi, io lo faccio perché è una necessità, un bisogno di svuotare la mente e creare storie e trame, personaggi e ambientazioni. Di seguito un esercizio che ho svolto durante il corso di scrittura creativa presso la Scuola Carver, incentrato sul focus tra personaggio e ambientazioni.
Il fischio del capotreno riempì
l’aria di addii soffocando i saluti tra la donna col cappotto rosso e l’uomo
smunto e allampanato che le stava di fronte. Lui abbassò la visiera del cappellino
coprendosi il viso pallido e con passo pesante si avviò verso l’uscita della
stazione. Claudicante a causa di un proiettile che aveva reso la sua andatura
incerta, trascinò gli scarponcini in pelle di coccodrillo oltre le porte a
vetri della palazzina stile liberty per raggiungere il parcheggio, dove una
Jaguar nera lo attendeva col motore acceso.
«È andata» disse Klaus che sprofondando
nel sedile richiuse la portiera. Diede un’occhiata all’orologio: «Abbiamo
qualche ora prima dell’arrivo di Emma.» Si sbottonò la giacca e accompagnò alla
bocca il sigaro che aveva l’abitudine di portare nel taschino interno, senza
mai realmente fumarlo. «Una puntatina ai cavalli?»
«Eh, perché no.» Gabriele
ingranò la prima e partì facendo stridere le gomme.
Il lungo viale ornato di platani
secolari che dalla stazione portava al centro cittadino era un tappeto di
foglie di ogni gradazione di rosso. La Jaguar lo percorse a gran velocità, incurante
delle numerose pozzanghere che avrebbero schizzato chi camminava lungo il marciapiede.
«Voglio portarla al Ristorante
La Rocca. Se lo merita» disse Klaus fissando un punto indefinito oltre il
parabrezza.
«E l’appuntamento con Baldini stasera,
per la consegna?»
«Possiamo vederlo dopo che
l’avrò riaccompagnata in albergo. Meglio se non s’incontrano.»
L’auto s’incanalò nel flusso del
traffico mattutino, tra finestrini appannati per la forte umidità e pedoni
avviluppati in giacche e cappotti, autobus fermi davanti alle pensiline e fastidiosi
lavori in corso. Uscirono velocemente dalla città lasciandosi inghiottire dalla
fitta nebbia della periferia in direzione dell’ippodromo.
«Pensi che Emma manterrà la
promessa?» chiese Gabriele con aria cupa. «Di andarsene.»
«Vuole cambiare aria, partirà
con sua madre. Parlava del Sudamerica.»
«Quindi non la vedremo mai più»
strinse con forza il volante e le nocche impallidirono.
«Lascia perdere, non le sei mai
piaciuto. Niente scenate, chiaro? E poi lei non ci serve più, meglio che
sparisca.» Klaus diede attenzione a ciò che scorreva oltre il finestrino alla
sua destra mettendo fine alla conversazione. Non vide lo sguardo rabbioso di
Gabriele alle sue spalle.
Quella sera avrebbero
festeggiato il loro ultimo colpo da maestri, organizzato fin nei minimi
dettagli e portato a segno da una squadra ben addestrata. Era come
un’orchestra, ogni membro doveva mantenersi al proprio posto a suonare lo
strumento che conosceva meglio, limitarsi ad eseguire la parte assegnata
evitando di improvvisare. Sapevano bene che per nessun motivo era consentito
contraddire Klaus, il direttore di quell'orchestra; colui che muovendo la
bacchetta dirigeva il ritmo di violini e contrabbassi, clarinetti e tromboni,
creando di volta in volta le giuste sinfonie e un’esecuzione impeccabile, con
tanto di coup de theatre finale.
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